LA MESSA detta DI “SAN PIO V” È LA MESSA romana DI TRADIZIONE APOSTOLICA

Introduzione storica

Passate le rivoluzioni dell’ Umanesimo e del Rinascimento, che avevano preparato quella luterana e che avevano esercitato il loro nefasto influsso anche nell’ ambiente ecclesiale e liturgico, san Pio V, sùbito dopo il Concilio di Trento, mise ordine, sia in teoria sia in pratica, nel rito della Messa, che qua e là aveva subìto alcune deformazioni rinascimentali, tanto che ancora oggi si usa parlare “impropriamente” di Messa di san Pio V a riguardo del rito romano, il quale – per essere più corretti – è di Tradizione apostolica (cfr. Michael Davies, La Riforma liturgica Anglicana, tr. it., www.unavox.it)[1].

Il Concilio di Trento (1545-1563) dovette affrontare l'eresia protestante e, per fare questo, fece chiarezza nella dottrina cattolica, riaffermando i dogmi e condannando gli errori.

Tuttavia, la Chiesa non si fermò alla dottrina, ma accanto alla chiarezza dottrinale, iniziò un'opera di riforma pratica e molto concreta del popolo cristiano, affinché tornasse a una vita autenticamente cattolica.

La concretezza pastorale (ossia l’applicazione dei princìpi dogmatici ai casi concreti) della riforma tridentina, la si trova specialmente nel riordinamento dogmatico/liturgico voluto dal Concilio; poiché “la liturgia è la Fede pregata”: perciò non si può scindere la liturgia dal Dogma.

Nel corso della XVIII Sessione, il Concilio designò una Commissione incaricata di esaminare il Messale Romano, di revisionarlo, e di restaurarlo. Non si trattava di fare un nuovo Messale (come ha fatto Paolo VI nel 1969), ma di restaurare quello di Tradizione apostolica, facendone un’edizione critica, servendosi dei migliori manoscritti e di altri documenti.

Il 13 luglio 1570, con la bolla Quo primum tempore, il Papa promulgava il Messale restaurato. Il titolo era “Missale Romanum ex decreto SS. Concilii Tridentini restitutum”. Ossia, “riportato, restituito” filologicamente, alla sua pura origine apostolica, che fu trasmessa da Gesù a S. Pietro e da questi ai suoi successori, l’ultimo dei quali a mettervi le mani fu S. Gregorio Magno († 604). 

Il Messale del 1570, per quanto riguarda l’Ordinario, il Canone, il Proprio del tempo e ben altri punti fu una restaurazione filologica del Messale romano del 1474, il quale riprendeva a sua volta, su tutti i punti essenziali, la pratica della Chiesa romana all’epoca di Innocenzo III († 1216), che proveniva a sua volta dall’uso liturgico in vigore ai tempi di san Gregorio Magno († 604) e dei suoi successori nell’VIII secolo. In breve, il messale del 1570 era, per l’essenziale, l’uso liturgico dominante dell’Europa medioevale dei Padri ecclesiastici e dei Dottori scolastici.  

  1. Pio V abolì tutti i riti liturgici che non potevano vantare più di due secoli di antichità, perché da tempo serpeggiavano alcuni errori dottrinali nella Chiesa, che poi avrebbero portato all'avvento dell'eresia protestante. Quindi c'era il grande sospetto che le novità introdotte nel rito della Messa, a partire dell’Umanesimo e dalla Rinascenza, fossero segnate almeno implicitamente, dal pericolo di eresia; perciò, esse andavano abolite. Infatti, le confusioni, le ambiguità, ma anche le trascuratezze liturgiche conducono, a lungo andare, il popolo e i sacerdoti verso la perdita dell'autentica Fede cattolica (“lex credendi, lex orandi, “si prega come si crede”; “la liturgia è la fede pregata”).

Così san Pio V mantenne in uso tutti i riti più antichi di duecento anni (Ambrosiano, Mozarabico, Cartusiano, Domenicano), e restituì alla Chiesa latina il Messale Romano, nella sua purezza di Tradizione apostolica, ossia le ridette la Messa di sempre, quella celebrata da Gesù e data da Questi a S. Pietro che la portò a Roma. Non fu un’invenzione ex novo della Messa “fatta a tavolino” (come fecero Bugnini e Montini), ma fu la restaurazione del Messale in uso da sempre nella Chiesa Romana.

  1. Tommaso d’Aquino (S. Th., I-II, q. 97, a. 2) insegna che “le mutazioni della legge sono sempre a scapito della forza della legge. Quindi, non si deve mutar la legge senza vera necessità o almeno senza un’ evidente grandissima utilità della comunità”. Perciò, i continui cambiamenti della legge liturgica e del rito della Messa (com’è avvenuto dal 1965 in poi) non fanno bene alla vita cristiana, anche se in sé non fossero pericolosi. Il solo fatto di cambiare spesso snerva la preghiera cristiana, la rende troppo umana, instabile, mutevole e poco divina. Tutto ciò disorienta nella dottrina e impoverisce la vita dei credenti. I continui cambiamenti rendono le anime facile preda di coloro che portano pericolose eresie all'interno della Chiesa con la scusa di ringiovanirla.

 

Liceità della resistenza alla legge ingiusta

Il problema della resistenza agli ordini illeciti è stato trattato dall’ epoca apostolica sino ai nostri giorni.

Leone XIII, nell’enciclica Diuturnum illud del 1881, insegna che quando l’ordine del principe è contrario al diritto naturale e divino, obbedire sarebbe criminale.

Pio XI, nell’Enciclica Firmissimam constantiam del 1937, ricorda all’ Episcopato messicano che se i poteri costituiti ²attaccano apertamente la giustizia…, non si vede nessuna ragione di rimproverare i cittadini che si uniscono per la loro difesa e a salvaguardia della nazione”, ossia è lecita una resistenza attiva che usi mezzi leciti.

Il padre gesuita Andrea Oddone ha scritto nel 1944-45 che la resistenza passiva (non obbedire) è sempre lecita nei riguardi di una legge ingiusta. La resistenza attiva legale, in casi in cui la religione è messa in pericolo, è lecita, anzi, occorre ²deplorare – come insegna Leone XIII in Sapientiae christianae del 1890 – l’attitudine di coloro che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari” (cfr. A. Oddone,  La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica, in Civiltà Cattolica, n. 95, anno 1944, pp. 329-336; Ibid., n. 96, 1945, pp. 81-89).  

Recentemente, padre Reginaldo Pizzorni ha insegnato che l’obbligazione appartiene all’essenza della legge; infatti, sarebbe inconcepibile una legge non obbligante; però si pone una domanda: “Siamo sempre tenuti a ubbidire alla legge umana?; oppure: è lecita la resistenza alla legge ingiusta?, è un sacro dovere la resistenza all’oppressione?”[2]. Le posizioni sull’obbligatorietà della legge sono tre: 1°) le leggi sono sempre giuste e quindi occorre obbedire sempre (Hobbes); 2°) le leggi possono essere ingiuste, nel qual caso sorge il diritto di resistenza (san Tommaso); 3°) le leggi possono essere ingiuste, ma bisogna ubbidire lo stesso (Kant).

Per i Padri e i Dottori della Chiesa, la risposta è unanime: sant’ Agostino dice: “Legge ingiusta, legge nulla”[3], essa non è più legge sed corruptio legis.

Parimenti “un’autorità che non s’ispirasse alla giustizia  sarebbe tirannide e la sua legge non avrebbe più un valore intrinseco di giuridicità, ma sarebbe solo una perversione della legge, più che una legge sarebbe un’iniquità, per cui non ha più natura di legge, ma di in-giustizia. Quindi... non è assolutamente vincolante, perché nulla che è contro la ragione è permesso”[4].

In questi casi, non solo è lecito non ubbidire, “ma sarà moralmente legittima anche la resistenza, benché i limiti della stessa siano segnati dalla conservazione del bene comune, che deve prevalere sul bene individuale... Pertanto anche delle leggi ingiuste, a meno che  non si tratti di leggi contrarie al bonum divinum, nel qual caso in nessun modo si possono osservare (S.Th., I-II, q. 96, a. 4), possono obbligare per... salvare l’ordine e la tranquillità dello Stato. (...) Non bisogna temere tra i sudditi solo lo spirito di ribellione, ma anche quello del serilismo[5] .

Per resistere alla legge ingiusta occorre distinguere la resistenza passiva da quella attiva:

 

La resistenza passiva

Essa consiste nella non esecuzione della legge ingiusta, fino a che non vi si è costretti con la forza; ma nel caso in cui la legge ingiusta comandi qualcosa di peccaminoso, ossia “un atto intrinsecamente cattivo in sé, la resistenza non solo è permessa, ma è sempre obbligatoria; non si possono eseguire ordini criminali”[6].

 

La resistenza attiva legale

Essa consiste in un’opposizione positiva alla legge ingiusta, compiuta sul terreno delle leggi o con mezzi legali, per es. pubbliche riunioni, proteste, petizioni ricorso ai tribunali... «occorre non rifugiarsi nella indifferenza e nell’inerzia di coloro che non sanno o non vogliono organizzarsi e lottare per una causa nobile e giusta, per timore e viltà di affrontare i sacrifici e i maggiori doveri che questa lotta porta con sé... “A chi cadrebbe in animo di tacciare i Cristiani dei primi secoli di nemici dell’Impero Romano, solo perché non si curvavano dinanzi alle prescrizioni idolatriche, ma si sforzavano di ottenerne l’abolizione?” (Leone XIII, Lettera ‘Notre Consolation’ ai cardinali francesi, 3 maggio 1892)»[7]

Per questo motivo i cardinali Ottaviani e Bacci scrissero (come vedremo meglio sotto) nel Corpus Domini del 1969 a Paolo VI di abrogare il Novus Ordo Missae in quanto “legge nociva per le anime” (Lettera di presentazione al Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae).

Monsignor Gamber: la storia della Messa tradizionale

Monsignor Klaus Gamber dimostra in numerosi studi[8] che la Messa detta di san Pio V è la Messa romana di Tradizione apostolica e che nella Chiesa primitiva e durante il Medioevo, fu norma rivolgersi a oriente durante la preghiera e non coram populo.   

Dice sant'Agostino: "Quando ci alziamo in piedi per la preghiera, ci volgiamo a oriente, da dove s'innalza il cielo, non come se ivi soltanto fosse Dio, e avesse abbandonato le altre parti del mondo, ma perché lo spirito s’innalzi ad una natura superiore, ossia a Dio".

Queste parole del Vescovo di Ippona mostrano che i Cristiani, dopo l'omelia, si alzavano per la preghiera successiva e si volgevano a oriente. A quest'atto allude sempre Agostino concludendo le sue omelie con la formula fissa conversi ad Dominum ("rivolti al Signore").

I liturgisti ritengono che anche la risposta del popolo “Habemus ad Dominum”, all'invito del celebrante “Sursum corda”, implichi l'essere rivolti ad oriente, tanto più che alcune liturgie orientali esigono che ciò effettivamente sia, dopo l'invito del diacono.

Ciò vale per la Liturgia copta di Basilio, dove all'inizio dell'anafora si dice: "Venite, uomini, state in adorazione e guardate a oriente", e per la Liturgia egiziana di Marco, dove un analogo invito – "Guardate a oriente" – viene dato nel corso della Preghiera eucaristica, ossia prima del Sanctus. Nella breve esposizione del rituale liturgico contenuta nel libro II delle Costituzioni apostoliche (fine del secolo IV), è prescritto di alzarsi in piedi per la preghiera e di volgersi a oriente. Nel libro VIII viene riportato un equivalente invito del diacono: "State in piedi rivolti al Signore". Nella Chiesa primitiva, pertanto, volgersi al Signore e guardare a oriente erano la stessa cosa.

L'usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima e comune a Ebrei e Gentili. I cristiani l'adottarono ben presto. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum (cap. XVI), egli riferisce che i cristiani "pregano nella direzione in cui sorge il sole". Allora nelle case s’indicava la direzione della preghiera per mezzo di una croce incisa nel muro. Una croce del genere è stata ritrovata a Ercolano in una camera al primo piano di una casa sepolta dall'eruzione del Vesuvio nell'anno 79.

Troviamo basiliche con ingresso verso oriente soprattutto a Roma (il Laterano e S. Pietro) e nell'Africa del nord, mentre esse scarseggiano in Oriente. Trattandosi di edifici con la porta d’ingresso rivolta verso oriente, si può dire che essi seguivano l'esempio del Tempio di Gerusalemme e dei maggiori templi antichi. Nelle basiliche dall'ingresso verso oriente il celebrante era costretto a tenersi regolarmente dalla parte di dietro dell'altare per garantire l'orientamento verso est durante l'offerta del santo sacrificio; al contrario nelle chiese dall'abside verso l'est, il sacerdote doveva necessariamente tenersi davanti l'altare (ante altare) volgendo le spalle ai fedeli.

Dov'era il posto dei fedeli nelle basiliche costantiniane con l'abside rivolto verso ponente? Durante il Canone della Messa, non solo il sacerdote ma anche i fedeli stavano rivolti verso oriente, guardando in direzione delle porte della chiesa, tenute aperte, attraverso le quali filtrava la luce del sole simbolo di Cristo risorto. Durante la celebrazione dell’Eucaristia, anche nelle basiliche menzionate, il popolo e il sacerdote non stavano mai di faccia. I fedeli – separati gli uomini dalle donne – prendevano posto nelle navate laterali. Le grandi basiliche ne possedevano fino a sei (il Laterano e S. Pietro ne hanno quattro). Questa disposizione corrisponde ai posti a sedere che si trovano nelle piccole chiese paleocristiane, un uso che continua a esistere ancora nelle chiese dell'Oriente. Anche qui la navata centrale rimane libera, i fedeli anziani siedono sui sedili lungo le pareti laterali e nelle navate mentre la maggior parte dei fedeli rimane in piedi.

I fedeli, perciò, nelle basiliche in cui l'ingresso e non l'abside era situato ad oriente, se non guardavano l'altare nemmeno voltavano ad esso le spalle: cosa inammissibile, data la santità dell'altare stesso. Poiché erano nelle navate laterali, avevano l'altare rispettivamente alla loro destra o alla loro sinistra, e formavano un semicerchio aperto a oriente col celebrante e gli assistenti all'incrocio del transetto con l'asse longitudinale della chiesa.

Nelle chiese con l'abside a oriente, tutto dipendeva da come si disponevano i fedeli. Se formavano un ampio semicerchio davanti all'altare situato nella parte absidale della chiesa o presbiterio, anche in questo caso il semicerchio era aperto a oriente; il celebrante non era più all'incrocio dei bracci, bensì nel punto focale, più lontano dai fedeli.

Analogo pensiero esprime san Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa, IV, 2): "Nella sua Ascensione al cielo, Egli si levò verso oriente. Così Lo adorano gli Apostoli, e ritornerà come essi Lo videro andare verso il cielo. Dice, infatti, il Signore: “Come il lampo parte da oriente e illumina fino a occidente, tale sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo”. Poiché l'aspettiamo, adoriamo rivolti ad oriente, questa è una Tradizione non scritta degli Apostoli". Partendo da questa veduta, a cominciare pressappoco dal VI secolo, si cominciò a rappresentare l'Ascesa del Signore sullo sfondo dell'abside ricordando in tal modo anche la sua gloria nel cielo e la sua seconda parusia (At. I, 11).

Lo sguardo levato verso l'oriente non cerca soltanto la gloria di Cristo in cielo e il suo ritorno, ma esprime anche il desiderio della visione che si svelerà alla fine dei giorni, nella gloria avvenire. È quello il significato della prece che s’innalza nella Didaché (X, 6) Maranatha! Che ripete il Veni, Domine Iesu! dell'Apocalisse.

Ora, tenendo a mente questi princìpi si capisce perché i cardinali Ottaviani e Bacci avessero chiesto a Paolo VI di abrogare la Nuova Messa del 1969 e di lasciare intatta la Messa di Tradizione apostolica, restaurata da san Pio V.

Vediamo, in quest’articolo, brevissimamente, cosa avessero scritto i due porporati a papa Montini per rafforzarci nella convinzione, teologicamente fondata, dell’illiceità di voler abrogare un rito di Tradizione apostolica e di obbligare a celebrare un rito ambivalente, che può essere interpretato anche in maniera protestante.

Queste pagine possano aiutare i sacerdoti e i fedeli cattolici a mantenere l’uso della Messa detta di san Pio V, senza lasciarsi fuorviare da ordini illeciti che sono un abuso di potere poiché pretendono di proibire il bene e di obbligare a fare ciò che si allontana dalla Fede ortodossa e tradizionale, avvicinandoci al Luteranesimo.    

 

 “Lettera di Presentazione del Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” dei cardinali Ottaviani e Bacci

«Esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo […] sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti: Come dimostra sufficientemente il pur “Breve Esame Critico” allegato […] il Novus Ordo Missae, considerati gli elementi nuovi, […] rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu       formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i “canoni” del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Magistero. […]. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa».

Il card. Ottaviani era allora Prefetto del S. Uffizio, cioè della “Suprema Congregazione”, che vigilava sulla ortodossia delle dottrine insegnate nel mondo, grazie ad un mandato ricevuto dalla Chiesa. Il Cardinal Bacci era il Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti ed era un grande esperto in teologia e in latino presso la Segreteria di Stato sin dal 1921. Quindi questa “Lettera” ha tutt’oggi – nonostante i suoi 53 anni – un valore intrinseco, data l’alta conoscenza della teologia, del diritto, della liturgia e della storia da parte dei suoi due Autori, ed un valore estrinseco, poiché deriva dall’Autorità Suprema allora deputata dal Papa stesso a decidere su ciò che è o no conforme alla dottrina e morale cattolica anche nel Culto divino.

Il Breve Esame Critico è stato esaminato direttamente dai due Cardinali e fatto esaminare dagli esperti del S. Uffizio e i due Cardinali si dicono “obbligati ad esprimersi” sul Novus Ordo perché esso “si allontana in modo impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della S. Messa definita infallibilmente ed irrevocabilmente dal Concilio di Trento”.

Questa è la constatazione della rottura o discontinuità tra la Messa di Tradizione apostolica e la nuova Messa di Paolo VI, della quale i due Cardinali chiedono la “abrogazione”, poiché una legge deve essere promulgata ad bonum commune obtinendum, per il bene comune, mentre la nuova riforma liturgica è “nociva” per le anime (e vedremo il perché).

 

Il Contenuto Del “Breve Esame Critico”

Riportiamo ora un riassunto dell’essenza del “Breve Esame Critico”:

«§ I […]. Nella Costituzione Apostolica [Missale Romanum, 3 aprile 1969] si afferma che l'antico Messale, promulgato da san Pio V il 13 luglio 1570, ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità, fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino e [poi fu] portato in ogni terra, […]. Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale […] da contentare, in molti punti, i protestanti più modernisti. […].

«§ II Cominciamo dalla definizione di Messa al § 7 […]. La definizione di Messa è limitata a quella di “cena”. […]. Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro “superamento”, quindi, almeno in pratica, alla loro negazione. […]. Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula “Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini” è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in se stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente. […].

«§ III E veniamo alle finalità della Messa. 1°) Finalità ultima. È il Sacrificio di Lode alla Santissima Trinità, […]. Questa finalità [nel nuovo rito] è scomparsa: – dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas; – dalla conclusione della Messa con il Placeat tibi, Sancta Trinitas; – e dal Prefatio, che nel ciclo domenicale non sarà più quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l'anno. 2°) Finalità ordinaria. È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). 3°) Finalità immanente. Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile e accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e Dio: l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in ‘pane di vita’; l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in ‘bevanda spirituale’: […].

«§ IV Passiamo all'essenza del Sacrificio. Il mistero della Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercettibile dal popolo. Eccone le ragioni: 1°) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta “Prex eucharistica” […]. Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi. […]. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe, non è stata sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina. 2°) La causa di questa non esplicitazione del Sacrificio è, né più né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, […] (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata. […] [il Novus Ordo rappresenta un] sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale. L’eliminazione poi delle genuflessioni […]; della purificazione delle dita del sacerdote nel calice; della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione; della purificazione dei vasi […]; della palla a protezione del calice; della doratura interna dei vasi sacri […] tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della Fede nel dogma della Presenza Reale. […]. 3°) La funzione assegnata all’altare […] quasi costantemente chiamata mensa. 4°) Le formule consacratorie. L'antica formula della Consacrazione era una formula ‘propriamente’ sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose [e principalmente da] […] la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere più grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo; […]. Nella nota 15 per quanto riguarda la validità della consacrazione nella nuova Messa il “Breve Esame” scrive: «Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Vale a dire, data la nuova forma grafica della Consacrazione, la formula del Novus Ordo non è più in sé strettamente parlando o “propriamente” una forma di Sacramento, ma lo può diventare solo impropriamente in virtù dell’intenzione del sacerdote. Si pone perciò un problema per i futuri sacerdoti che verranno de-formati con la “nuova teologia”, i quali potrebbero non rendere in senso stretto ‘forma del Sacramento dell’Eucarestia’ quella che è solo una “forma sacramentale” in senso lato o improprio.

«§ V Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio. I quattro elementi di esso erano nell’ordine 1°) il Cristo; 2°) il sacerdote; 3°) la Chiesa; 4°) i fedeli. Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (absoluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: “Missa est sacra synaxis seu congregatio populi” al saluto del sacerdote al popolo (n. 28) […]. Vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque: il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152); l'inaudita distinzione tra “Missa cum populo” e “Missa sine populo” (nn. 203-231); […].

«§ VI Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. […]. È evidente che il Novus Ordo non vuole più rappresentare la Fede di Trento. A questa Fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del “Novus Ordo”, in una tragica necessità di opzione. […].

«§ VIII […]. S. Pio V curò l'edizione del Missale Romanum […] mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale: “Se qualcuno presumesse attentare a quanto abbiamo decretato, sappia che si attirerà l’indignazione di Dio Onnipotente e dei suoi Beati Apostoli Pietro e Paolo” (Bolla Quo primum tempore, 13 luglio 1570) […]. L'abbandono di una Tradizione liturgica […] (per sostituirla con un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa d’insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della Fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo più mite, un incalcolabile errore». (Corpus Domini 1969).

Negli articoli successivi ci soffermeremo a commentare molti di questi princìpi che abbiamo esposto brevemente in quest’articolo.

Petrus

 

[1] M. Davies, The Liturgical Revolution, 3 voll., Roman Catholic Books/Angelus Press, Dickinson, Texas,  1976-1980.

[2] R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo, in S. Tommaso D’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1999, pag. 348.

[3] De libero arbitrio, I, 5; PL, XXXII, 1227.

[4]R. Pizzorni, op.cit., pag. 352.

[5] Ibidem, pagg. 353-354.

[6] R. Pizzorni, op. cit., pag. 358. 

[7] Ibidem, pag. 359.

[8]  K. Gamber, Die Zelebration "versus populum", in Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, pp. 21-29; tr. it.,  Chiesa viva, n. 197, 1989, pp. 16-18.

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