Il falso e il vero Dante Chiarimenti

Quinta parte

Dante alchimista: è questo uno dei più discussi e diffusi argomenti che i distillatori dell’occulto pongono sul tavolo dei dibattiti ove si estrinsecano, con ampia e dotta dovizia lessicale, i vapori cerebrali che avvolgono le formule delle benemerite botteghe ermeneutiche con l’ annuncio di verità.

Dicono che il Poeta sia stato cultore e maestro dell’Alchimia Naturale ma ancor più di quella Speculativa perché, come da documenti inoppugnabili, egli figurò – ecco il ponte degli asini! – nell’elenco dei medici. Ma è parimenti inoppugnabile, e documentato, e sappiamo con certezza che la sua iscrizione alla tabella delle Corporazioni fu un espediente per poter accedere ai pubblici uffici dacché gli Ordinamenti di Giustizia del Secondo Popolo, promulgati dal gonfaloniere Giano della Bella tra il 1293 e il 1295, stabilivano tassativamente l’ obbligatorietà di esercitare una professione per poter aspirare alla gestione politica del Comune e, quindi, di iscriversi a uno dei Mestieri. Poiché medici, speziali e filosofi erano considerati in stretta connessione culturale e tecnica, Dante, in quanto ritenuto filosofo, fu collocato nell’Arte Maggiore dei medici–speziali. Cade, pertanto, il primo fondamento su cui poggia la favola di un Alighieri alchimista ma, nonostante tale smentita, si continua a pestare su questo tasto rilanciando addirittura con scorrette e velleitarie mozioni.

Una delle più gettonate è quella che descrive un Dante atteso a compiere l’Opus Magnum, la trasmutazione del Piombo nell’Oro attraverso le fasi del Nero (Inferno) del Bianco (Purgatorio) e del Rosso (Paradiso) nel tragitto indicato dall’ acrostico VITRIOL.

Che si possa condurre una riflessione metastorica e culturale sul significato del viaggio dantiano, inteso quale passaggio da una ‘nigredo’ (stato di peccato) a una ‘albedo’ (stato purificatorio) per concludere a una ‘rubedo’ (stato di beatitudine), cartelli criptici indicanti: Inferno, Purgatorio, Paradiso, è operazione più che lecita dal momento che è lo stesso Autore a stimolare la ricerca di un sovrasenso pervasivo e aleggiante negli endecasillabi (Inf. IX, 61–63). Ma non è lecito accostare e collegare l’esperienza dantiana – vero ‘itinerarium mentis in Deum’ – a percorsi di ben altra natura e di epoche successive alla sua.

È il caso del sopra citato acrostico VITRIOL che una studiosa – benemerita per una agevole didattica della lingua greca – pone quale segnavia del sentiero dantiano, riassuntivo del metodo operativo così scandito: “Visitando Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem[1] – Visita l’interiorità della Terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta. Stando alla storia e alla corrente letteratura, la pietra nascosta è il ‘vero rimedio’ ad ogni male – così la intendeva l’alchimista Basilio Valentino nel 1613 – sicché applicando siffatto simbolismo alla Commedia ne viene che la pietra occulta è Lucifero, figura che mal s’appone al concetto di bene–salute. E, difatti, la studiosa di cui sopra, volendo mettere una pezza a questo aberrante abbinamento, così scrive: «Chi giunge alla Pietra–Lucifero ha compiuto l’ Opera al Nero realizzandola attraverso il V.I.T.R.I.O.L. corrosivo acrostico della prima prescrizione: Visita interiora terrae... I corpi si sono sciolti, la “materia” è “digesta”», come a dire che dopo l’esecuzione del precetto Vitriol, c’è un secondo percorso da fare, quello della risalita di cui, però, non esiste analogo acrostico, il segnavia del tragitto, e non esiste perché il detto Vitriol è il programma unico e riassuntivo di ogni aspetto sia speculativo, sia pratico, sia metodologico, fatto proprio dalla Massoneria, tendente a un fine unico e ultimo che possiamo, senza dubbio, ravvisare nel luciferismo, ovvero, nel satanismo, come chiaramente afferma René Guénon nel suo Le roi du monde «per ‘tradizione’ primordiale si intende il rifiuto del Dio di Abramo, cioè la sequela del modello luciferino e che il luciferismo è l’essenza della massoneria ‘eterna’»[2]

C’è poi da sottolineare il divario storico intercorrente tra l’epoca dantiana – sec XIII–XIV – e l’ apparizione del citato acrostico – sec. XVII, onde tentar di financo alludere al Poeta cultore vitriolano è operazione meschina e fantasiosa, così come ridicoli sono i tentativi di vestirlo con i panni arancioni di un ‘avatar’ buddista[3] o di farne uno spericolato esploratore di terre artiche della qual nuova identità tratteremo in séguito. Ciò detto, torniamo alla taccia di alchimista percorrendo la corsia dell’Opus magnum.

Secondo i cacciatori dei misteri, indizio sicuro è una ricorrente triade che scandisce elementi, tenuti in raccordo simbolico, come in appresso:

1) i colori – nero/verde, bianco e rosso – che stanno a significare apertamente i gradi della Grande Opera così definiti: nero/verde = putrefazione della materia; bianco = incenerimento della materia; rosso = la mutazione del piombo in oro. E tutta siffatta sequenza è rivelata nel passo che descrive Beatrice, apparsa sopra un niveo velo, cinta di verdi fronde di ulivo coperto il capo di un verde manto e avvolta di una rossa, fiammante veste[4];

2) i luoghi traverso i quali il Poeta compie il suo viaggio alchemico, e cioè: Inferno (Nero), Purgatorio (Bianco), Paradiso (Rosso) che, con termini greci, si possono definire: catabasi (discesa), diabasi (risalita), anabasi (ascensione);

3) i gradini della porta del Purgatorio, di pietra così descritti: 1) bianco marmo, lucido, levigato e terso come uno specchio; 2) pietra tufacea, ruvida e secca con profonde fenditure in lungo e in largo; 3) porfido rosso come sangue sopra il quale poggia i piedi un angelo[5].

Completa la scalinata una soglia adamantina su cui siede l’angelo portinaio[6], che, a giudizio degli inquisitori dell’occulto, non altro rappresenta che la sintesi in cui l’elemento vile e materiale muta nella sostanza, diventando prezioso e splendente.

Non ci è gravoso rettificare il simbolismo delle tre figure – colori, luoghi, gradini – secondo l’ intendimento con cui Dante volle semplicemente indicare: 1) nei colori di Beatrice, le tre virtù teologali: fede, speranza e carità; 2) nei luoghi ultraterreni, le condizioni presenti ed ultime della vita umana intesa come un cammino; 3) nei gradini di pietra, i tre momenti del sacramento della Penitenza–Confessione come già compresero gli antichi commentatori, e cioè: bianco = esame di coscienza o accusa di stesso “qual debba essere semplice, pura et aperta”; scuro = contrizione, pentimento e dolore, “ricognoscimento del peccato commesso et proponimento di non ricadervi. Et invero debba tal contritione esser di dureza petrina”; rosso = espiazione “la quale debba essere intera et che niente sia diminuito, chome del porphyro non si diminuisce”. La soglia della porta, su cui è seduto l’angelo portinaio, è di diamante e “questa pietra non si può spezare, né vincere. Et chosì el sacerdote debba essere intero, severo, et non si corrompere[7]. E fin qui si cammina sul senso allegorico. Laddove si intenda percorrere l’ anagogico, i tre gradini vogliono rappresentare il percorso che Bonaventura chiama “Itinerarium mentis in Deum” e che si conclude con la “mente percossa da un fulgore in che sua voglia venne. / All’alta fantasìa qui mancò possa[8] smentendo, in tal modo ogni possibile allusione alchemica.

Ma vi sembra, infatti, coerente, degno e logico che un alchimista, seppur coperto sotto il velame di strani versi, sbatta nella regione più profonda degli inferi, “l’ultima bolgia delle diece[9] i suoi colleghi fatti lebbrosi fetidi, mentre lui se ne sta beato e felice in Paradiso? E non è parimenti odioso – lui, eretico – l’aver condannato in avelli infocati, i suoi sodali catari?[10], così come vile, lui condannato per baratteria, l’aver i suoi compari ‘mazzettari’ messi a cuocere nella pece bollente?[11].

A questa semplice obiezione che, in una affollata conferenza ponemmo, anni or sono, a un relatore archeosofico che s’era immerso nella vertigine oracolare dell’esoterico, ci fu spiegato, con benevoli sorrisi, il meccanismo della simulazione con che Dante, proprio condannando i suoi compagni di fede, allontanò da sé i sospetti proteggendo, col loro ‘sacrificio’ la vera sua identità. Replicammo, osservando come, dati gli innumerevoli indizî della sua ‘irregolarità’ con che si sapeva essere, Dante: eretico, templare, cataro, fedele d’Amore, massone, alchimista, rosacroce, kabbalista, avatar, ghibellino, profeta, grande iniziato, mistagogo, visionario consumatore di hashish[12], extraterrestre, esploratore artico, non è che gli fosse ben riuscita la gherminella della copertura ché, se segreto doveva essere, ben altra strategia avrebbe dovuto mettere in atto dal momento che un segreto è tale se tale rimane[13]. Sfiancarsi e sfinirsi per anni, giorno e notte, alla composizione di un poema sacro (Par. XXV, 1–3), il cui scopo era quello di depistare i lettori dallo scoprire l’autentica personalità di uno che si spacciava per il migliore ‘figliolo’ della Chiesa Cattolica (Par. XXV, 52), è quanto meno ridicolo e per l’autore e per chi se ne fa banditore. Al che, il relatore, scotendo il capo e sospirando un compassionevole ‘mah!’, si allontanò seguìto dalla corte dei suoi minutanti.

Chiusa la parentesi sul nostro intervento, concludiamo anche queste riflessioni proponendoci di tornare sul tema ‘Dante esploratore artico”: uno spasso. Davvero

L.P.

 

[1] Edy Minguzzi: L’enigma forte–il codice occulto della Divina Commedia. Ed. Ecig, 1988, pag. 63.

[2] Piero Vassallo: Ritratto di una cultura di morte – I pensatori neognostici. Ed. D’Auria 1994, pag. 31.

[3] Alessandro Scali: Dante pietra di inciampo. Ed. Il Cinabro 2008, pag. 132.

[4] Pg. XXX, 31–33.

[5] Pg. IX, 94–102.

[6] Pg. IX, 103–105.

 

[7] Cristoforo Landino: Comento sopra la Comedia. Ed. Salerno, 2001, vol. III, pag. 1189–1190.

[8] Par. XXXIII, 141–142.

[9] Inf. XXIX, 118.

[10] Inf. X.

[11] Inf. XXI–XXII.

[12] Barbara Reynolds: Dante, vita e opere. Ed. Longanesi, 2006.

[13] Marbodo di Rennes: Lapidari. Ed. Carocci, 2000 pag. 38. “Majestatem minuit qui mystica vulgat, nec secreta manent quorum fit conscia turba” – Chi divulga sublimi verità ne sminuisce la maestà, e non sono più segreti quelli di cui il volgo è a conoscenza.