AGONIA DEL MONDO MODERNO & RIMEDI TEOLOGICI (2)


Il fallimento della plutocrazia

Abbiamo detto che la supremazia dell’alta finanza e il democraticismo sono le due forze, finanziaria e politica, su cui si fonda la modernità. Esamineremo perciò il fallimento dell’una e dell’altra.

La plutocrazia liberista

Il liberalismo in campo economico (=liberismo) fa della ricchezza il fine dell’uomo, per cui la crematistica o finanziaria, che è l’arte di arricchirsi, è l’anima della filosofia liberistica, la quale ritiene (come il sensismo o il pragmatismo) che l’uomo sia un animale solo sensibile e non razionale e spirituale onde i suoi bisogni e il suo fine sono d’ordine puramente materiale, temporale e finanziario.

Invece la sana ragione e l’ esperienza ci dimostrano che l’uomo è essenzialmente diverso dall’animale, perché non è solo materia o sensibilità, ma ha un’anima spirituale, cioè un intelletto fatto per conoscere la verità e una volontà fatta per amare il bene. Quindi la sola ricchezza economica e il solo benessere materiale non possono soddisfare l’uomo nella sua parte spirituale, che trascende l’ordine puramente fisico.

Ecco perché Aristotele e San Tommaso, dopo aver ben definito l’economia, che è la virtù di governare il focolare domestico 1°) regolando i rapporti tra moglie-marito-figli e 2°) insegnando l’arte di mantenere materialmente (mezzo) i suoi membri per vivere dignitosamente e poter avanzare spiritualmente (fine), hanno distinto l’economia dalla sua degenerazione, che è la finanziaria o affaristica o crematistica o pecuniativa cioè l’arte di arricchirsi intesa come fine ultimo. Il liberismo, invece, ha distorto la retta concezione di economia e l’ha fatta diventare finanziaria o affaristica.

Il liberalismo in realtà è una filosofia materialistica, in ciò è simile al marxismo, anche se ne differisce accidentalmente come vedremo meglio innanzi.

Per la sana filosofia classica (Aristotele) e scolastica (San Tommaso) la ricchezza è un mezzo per far vivere dignitosamente l’uomo procurandogli il tempo e i mezzi di perfezionarsi in ciò che lo rende uomo, ossia la conoscenza della verità e di Dio summum Verum e l’amore del bene e di Dio summum Bonum. Essa va usata tanto quanto ci aiuta a conseguire il fine; né più né meno. Non bisogna disprezzarla, ma neppure idolatrarla. Il mondo moderno, invece, ha l’idolatria della ricchezza. Il liberalismo la desidera disordinatamente per i borghesi a scapito degli operai e il comunismo la vuole unicamente per il proletariato a scapito dei borghesi.

L’agente principale di questo ribaltamento dei valori è stato il giudaismo talmudico, che in America[1] ha preso apparenze superficiali di “cristianismo” con il puritanesimo, in cui non vi sono tracce di Nuovo Testamento, ma solo di Vecchio Testamento[2], e mediante la massoneria ha imposto un nuovo stile di vita[3]. Il mondo americano è caratterizzato dal primato dell’azione, dell’affaristica, della massima produzione non rispondente a bisogni reali. Il puritanesimo statunitense ha ribaltato il principio del Vangelo “una sola cosa è necessaria: salvarsi l’anima” nel principio mammonistico “una sola cosa è necessaria: produrre e consumare per poter produrre ancora di più”. Il culto del “vitello d’oro” del tempo di Mosè (1300 a. C.) è rientrato dalla finestra del puritanesimo statunitense dopo essere stato cacciato dalla porta da Gesù Cristo e dalla Cristianità europea. La crisi contemporanea non è una crisi passeggera dovuta a circostanze economico/sociali sfavorevoli, ma è una crisi dottrinale, filosofica e teologica[4].

Per la dottrina liberale,  la libertà, intesa come licenza di fare tutto ciò che si vuole[5] (cfr. Leone XIII, Libertas praestantissimum, 1888), anche il male, non esistendo una legge naturale oggettiva che si impone all’uomo, è la soluzione sufficiente per risolvere tutti i problemi. Tale falso concetto di libertà, che in realtà è libertinaggio, è trasposto dal liberalismo:

1°) nel campo religioso, ove ha come conseguenza  l’indifferentismo in materia di religione (tutte le religioni sono buone) e l’amoralismo (quella “libertà di coscienza”, chiamata da S. Agostino e poi da  Pio IX “Libertà di perdizione”);

2°) nel campo intellettuale, in cui offre la libertà di pensiero, con l’illusione che la ragione umana, ferita anche se non distrutta dal peccato originale, lasciata libera e in balìa di se stessa, possa facilmente e senza nessun pericolo cogliere il vero;

3°) nel campo politico, ove rifiuta ogni autorità e scivola gradatamente verso una sorta di “anarchismo di destra”, che propugna la totale e assoluta libertà dell’individuo (droga libera, libero amore, libertà per le coppie omosessuali) sino ad arrivare a ridurre lo Stato ad un ente di ragione. Infine il liberalismo conduce al modernismo e al social/comunismo, pur essendo – apparentemente – in aperto contrasto con esso.

 

Il cancro divoratore del liberismo

Bisogna essere obiettivi e riconoscere che il liberismo ha realizzato tre dei suoi intenti: 1°) quello di salvaguardare la libertà individuale; 2°) quello di raggiungere l’ abbondanza della produzione dei beni materiali; 3°) quello dello sviluppo dei capitali. Ma il liberismo ha fallito nello stabilire l’equilibrio tra la domanda e l’offerta, tra il proprietario e l’operaio, tra capitale e lavoro. Anzi il liberismo ha stabilito uno squilibrio assai forte tra capitale e lavoro, provocando così la lotta di classe (lavoro contro capitale) e generando (indirettamente e suo malgrado) il social-comunismo come movimento ben strutturato e organizzato.

Il cancro divoratore del liberismo è la libera concorrenza. Infatti, per vincere la concorrenza, l’ imprenditore è costretto ad abbassare il prezzo della merce mediante la riduzione del salario e il prolungamento delle ore di lavoro. Nell’ Ottocento si giunse alle 16 ore giornaliere. Inoltre per abbassare i salari, i datori di lavoro ricorsero alla mano d’opera delle donne e dei bambini, pagati molto meno degli uomini. Si stabilì così la parola d’ordine del liberista: il massimo di lavoro e il minimo  di salario.

Conseguenza logica fu che il contratto di lavoro tra l’imprenditore e l’operaio divenne un qualsiasi contratto di compra-vendita, e, siccome il lavoro era merce (forza lavoro), l’imprenditore l’acquistava al suo “giusto valore” (cioè al prezzo fissato sul mercato dalla concorrenza tra capitalisti e lavoratori), ma in forza del suo maggior potere contrattuale fissava una giornata lavorativa nella quale l’operaio era costretto a prestare lavoro per un tempo maggiore a quello che era giusto in relazione al salario. Il datore di lavoro non aveva nessun bisogno urgente dell’operaio per vivere agiatamente, mentre l’operaio per vivere sic et simpliciter aveva urgente bisogno del datore di lavoro, poiché senza lavoro l’operaio non mangia. Quindi la libertà dell’imprenditore era vera “libertà”, mentre quella dell’operaio era la libertà di morir di fame o di accettare il cosiddetto salario da fame. Gli operai, perciò, dovettero ricorrere all’unico mezzo di difesa e di sopravvivenza, che era ritenuto dai liberali un delitto contro la loro proprietà: la coalizione. Impotente da solo, l’operaio divenne forte unendosi agli altri operai. Infatti il datore di lavoro poteva fare a meno di Tizio o Sempronio, ma non di tutti gli operai della sua impresa.

 

Il “principio di Caifa”, errore “capitale” del liberalismo

Principio fondamentale del liberalismo economico o liberismo di  Adam Smith è anche l’utilitarismo di Geremia Bentham. Infatti, se non esiste un valore assoluto morale oggettivo, l’atto umano non è buono o cattivo in sé, ma tutto dipende dall’utilità e dalle conseguenze pratiche di esso, ossia, se l’atto produce conseguenze positive o mi è utile, allora è buono per me; altrimenti è cattivo per me: “Ciò equivale a dire che l’omicidio di un innocente […], la bestemmia ecc., non sono atti semper et pro semper (sempre ed in ogni circostanza) malvagi, ma possono acquisire di volta in volta una qualificazione morale diversa (semper sed non pro semper, ossia non sono cattivi in ogni luogo né in ogni circostanza)”[6].

La conseguenza del liberismo utilitarista è il cosiddetto “principio di Caifa[7],secondo il quale è meglio che un solo innocente muoia per la salvezza di tutto il popolo. Non esiste il bene o il male in sé, ma solo “per me/noi”. L’utilitarismo comporta l’ edonismo psicologico[8], ossia la ricerca del piacere e la fuga dal dolore.

Secondo il londinese di origine israelitica Geremia Bentham (†1832) il piacere coincide con ciò che mi è utile. L’edonismo ricerca il piacere non nel futuro o nell’aldilà, ma nel presente. La “massimizzazione” del piacere e la “minimizzazione” del dolore vanno fondate, per Bentham, non sulla religione, la morale o la metafisica, ma sull’egoismo psicologico, onde l’ uomo cerca sempre il suo vantaggio, interesse o utilità. Il bene o la felicità, per Bentham, non è l’Atto Puro, ma l’interesse proprio. Questo è l’errore “capitale” del liberalismo: far coincidere il Bene sommo o Fine ultimo con una creatura (libertà, utilità, piacere…).

Appare evidente che l’etica naturale e cristiana[9] è assolutamente inconciliabile con l’etica soggettivistica e relativista dell’edonismo e dell’utilitarismo e perciò il liberalismo e il modernismo son stati ripetutamente e costantemente condannati dai Romani Pontefici (Pio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI, Pio XII).

 

Opposizione relativa e somiglianza sostanziale

Come non si può essere marxisti o collettivisti in economia senza essere materialisti dialettici in filosofia così non si può essere neppure liberisti in economia senza essere liberali in filosofia. Infatti il liberismo è una conseguenza nel campo economico di una filosofia chiamata sia soggettivismo cartesiano sia sensismo o empirismo, la quale asserisce che l’uomo – come l’animale – ha una conoscenza soltanto sensibile e non una conoscenza intellettuale, che, oltrepassando i fenomeni contingenti, arriva alla sostanza delle cose. Tale filosofia è nata in Inghilterra con Hume, Mill, Spencer verso la fine del XVIII secolo e si è sviluppata nel corso del XIX; essa vorrebbe segnare la fine della metafisica e ci ha condotti, attraverso il pragmatismo americano di James, al “pensiero debole” di Popper.

Anche questa filosofia, come il materialismo marxista, nega la spiritualità dell’anima umana e quindi il suo potere di conoscere la realtà sopra-sensibile rendendo l’uomo simile all’animale, per cui la conseguenza logica in economia è che bisogna lavorare, produrre e arricchirsi. L’ unica grande differenza tra liberal-liberismo e materialismo storico-dialettico social-comunista è che il il comunismo è un materialismo più grossier per i poveri e il liberalismo è un materialismo più radical-chic per i ricchi; ma entrambe le filosofie sono false e conseguentemente lo sono anche le loro conclusioni economiche. Inoltre, mentre il liberismo, fondandosi sull’ egoismo individualista, è animato da una forte propensione all’ ingiustizia sociale, il social-comunismo dice di voler la giustizia sociale ma, in realtà, produce la miseria più nera, fomentando l’odio, l’invidia e la gelosia tra le classi sociali. Tra i due sistemi vi è una diversità e opposizione relativa (individualismo e collettivismo), ma una sostanziale somiglianza nel primato dell’economia e del benessere materiale.

Ancor oggi, benché le condizioni della classe operaia siano notevolmente migliori rispetto a quelle dell’Ottocento, il social comunismo e il liberismo si combattono e si spartiscono il mondo, anche se essenzialmente mirano pressoché allo stesso risultato: la dittatura materialistica dell’economia e lo Stato Assoluto come unico proprietario da parte socialista e da parte liberista la “repubblica democratica-dittatoriale” ed edonistica, in cui poche persone hanno il monopolio delle ricchezze e dello Stato, ridotto al minimo dalla plutocrazia liberista.

 

“Vivere da maiali e morire da disperati”?

Questo conflitto, apparente e non sostanziale, danneggia soprattutto l’uomo comune e i piccoli risparmiatori, rendendo la vita umana una sorta di impiego permanente in una grande banca, ove l’uomo non ha più il tempo né i mezzi per realizzare quello che è: un animale razionale, fatto per conoscere il Vero e amare il Bene. Il mondo moderno, infatti, lo ha trasformato in un animale economico fatto per produrre e ammassare denaro (per sé o per lo Stato), per “pensare” a pagare le imposte o a evadere il fisco, a pagare le numerose bollette che tolgono il respiro all’uomo e ne fanno una macchina calcolatrice (una sorta di “epilettico-agitato” della Borsa di Milano o di Wall Street o della City) o una gallina da pollaio-fabbrica, che, a forza di ormoni e luce artificiale, produce uova d’oro.

Questo primato dell’ economia sulla metafisica è all’ origine dell’ imbarbarimento in cui siamo piombati in questi tristissimi anni, i quali hanno abbrutito l’ uomo e lo hanno reso incapace di risolvere i problemi fondamentali, che hanno sempre agitato il pensiero umano: l’ aldilà, l’esistenza di Dio, l’ immortalità dell’ anima. Domenico Giuliotti diceva: “Il liberismo ci fa vivere da maiali per farci morire da disperati”.

Il rimedio

Come uscire da questo stato di cose? Ritornando a Dio, ad una Società più umana, perché fondata sui princìpi della filosofia perenne o del buon senso che ridà il primato alla scienza speculativa (conoscere per sapere) o metafisica, subordina ad essa la filosofia pratica (conoscere per fare o per agire) ed infine rimette la tecnica (conoscenza sperimentale o empirica) al suo giusto posto, che è il più basso, mentre oggi occupa abusivamente quello più alto, rendendo l’uomo una macchina di produzione, che corre affannato e disperato verso un termine che neanche lui sa bene quale sia, verso un arricchimento materiale sempre maggiore, che lascia insoddisfatto il cuore umano, poiché è pur sempre un bene finito e creato (anzi “stampato” o “coniato”) mentre “il nostro animo è infelice sino a che non riposa nel Signore” (S. Agostino), che solo, essendo il Summum Bonum, può lenire le ansie e i problemi dell’ uomo, il quale è aperto all’infinito e non è limitato al problema economico, visto da “destra” o da “sinistra”.

(continua)

Augustinus

 


[1] Cfr. G. Iurlano, Sion in America, Firenze, Le Lettere, 2004.

[2] Cfr. E. Malynski, La grande conspiration mondiale, Parigi, Cervantès, 1928 ; Id., Eléments de l’histoire contemporaine, Parigi, Cervantès, 1928.

[3] Cfr. J. Marquès-Rivière, La trahison spirituelle de la Franc-Maçonnerie, Parigi, Portiques, 1930.

[4] F. Fried, La fin du capitalisme, Parigi, Grasset, 1932.

[5] Cfr. R. Spiazzi, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Bologna,ESD, 1992, pp. 527-562.

[6] G. Samek Lodovici, L’utilità del bene, Jeremy Bentham, L’utilitarismo e il conseguenzialismo, Milano, Vita e Pensiero, 2006 p. 21.

[7] G. Samek Lodovici,  op. cit., p. 109.

[8] Ivi, p. 6 e 9 e 204. Cfr. J. Bentham, Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Londra, 1789, pp. 89-90.

[9] Vedi Aristotele, Etica Nicomachea, 1106b 36. / EN, 1099a 6 /EN, II, 1107a 22-23 /EN, X, 1174a2-8 e S. Tommaso  S. Th., I-II, q. 58, a. 5 / q. 64. a. 1. / q. 2, a. 6, q. 19, a. 7. / q. 107, a. 1. / q. 4, a. 4 /,q. 19, a. 10. / q. 59, a. 4. / q. 56, a. 2. / q. 62, a. 2/Summa c. Gent., IV, c. 19. / IV, c. 95/. In II Ethic., lib. 4, c. 4 / l. 6 / l. 6, c. 6 / 9, c. 9.