PICCOLO CATECHISMO SULLA CHIESA E IL MAGISTERO (2)


Il sedevacantismo

L’apostolicità è, nella crisi che l’ambiente ecclesiale sta vivendo, la nota più utile e importante per capire cosa succede e porre rimedio a tanto male. Senza Apostoli non sussiste la Chiesa di Cristo, poiché Gesù stesso l’ha fondata su di loro. Ma senza il Principe degli Apostoli, senza Pietro, che è la ‘pietra’ secondaria e subordinata a Cristo, gli Apostoli sono slegati da Cristo. È allora assolutamente necessaria la presenza del Papa e dei Vescovi in atto o in essere e non solo in potenza o in fieri cioè in divenire, come asserisce il sedevacantismo. Infatti, se la Chiesa fosse in potenza o in divenire non esisterebbe ancora ed inoltre Cristo non sarebbe con lei, come ha promesso, tutti i giorni sino alla fine del mondo, ma lo sarebbe ad intervalli, certe volte in atto o in essere e certe altre solo in potenza o in fieri. Invece Cristo ha fondato la Sua Chiesa su una catena ininterrotta di Papi in essere e non in divenire perpetuo o ad intermittenza: Pietro e gli Apostoli erano Papa e Vescovi in atto e formalmente, non in potenza o in fieri o materialmente. La Chiesa poggia sull’essere, sull’atto e la forma, non sul divenire, la potenza e la materialità. Perciò la Chiesa o il Papato materiale o in divenire, che da ben quattro Papi non sarebbe passato all’atto ed avrebbe interrotto la successione apostolica formale da Pietro, è un Papato concepito dalla mente di un uomo (fosse anche un grandissimo teologo che, però, non è Cristo in terra né il Magistero ecclesiastico), ma non è la Chiesa voluta da Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.

Bisogna ben distinguere 1°) lo stato transeunte di Sede vacante, che va dalla morte di un Papa all’elezione di un altro, in cui permangono il Collegio cardinalizio, capace di supplire il Papa defunto governando con autorità (una sorta di Collegio “vicario” del Vicario di Cristo) e l’Episcopato universale[1], mantenendo così l’unità, la continuità ininterrotta della serie dei Papi e l’esistenza della Chiesa, in attesa dell’elezione di un nuovo Papa; 2°) la tesi sedevacantista dell’ assenza di un Papa in atto, di un Collegio cardinalizio governante con Autorità e di un Episcopato universale avente giurisdizione, assenza che dovrebbe durare sino al passaggio all’ atto del Papato “materiale”; tesi insostenibile perché, se il Papa materiale morisse senza divenire Papa in atto o formalmente, allora la catena ininterrotta dei Papi si spezzerebbe e le porte degli inferni avrebbero prevalso sulla Chiesa di Cristo, passata dalla potenzialità alla corruzione.

Sul portale web

www.sisinono.org
è possibile scaricare gratuitamente e per uso personale i numeri arretrati del nostro giornale in formato pdf.


Aristotele con la nozione di potenza, che non è il nulla, ma neppure l’essere in atto, ma pura capacità di passare all’atto o di riceverlo, è riuscito a conciliare il principio dell’ essere e il fatto del divenire. Infatti lo Stagirita spiega che “dalla potenza viene l’atto ovvero la potenza passa all’atto. Quindi il divenire è possibile e l’essere pure proprio grazie alla potenza”. Ora la potenza è “non-essere in atto” ed esiste come qualcosa di intermedio tra il nulla e l’essere in atto perfetto; per esempio, il legno della statua che viene cesellata pian piano non è il puro nulla, ma neppure è la statua ultimata, tuttavia esso esiste mentre l’artista lo lavora e tende all’atto perfetto (e non al divenire perpetuo).

Tale nozione metafisica di potenza è stata applicata in teologia dal sedevacantismo al problema dell’ Autorità e si è detto che un Papa può esserlo in atto (o formalmente) oppure solo in potenza (o materialmente). Cioè quando si elegge un Papa finché egli non ha accettato l’elezione canonica è Papa solo in potenza prossima o materialmente; lo diventa in atto o formalmente quando accetta la sua elezione. Ogni uomo battezzato può essere eletto Papa e perciò egli è in potenza (remota) Papa, se viene eletto lo diviene in potenza prossima e se accetta diventa Papa in atto o formalmente (ricevendo la consacrazione sacerdotale ed episcopale).

Se, però, non accetta resta Papa in potenza prossima sino a che non muoia. Infatti, una volta morto, è un cadavere; proprio come il legno può diventare statua in atto, ma, se marcisce e diventa polvere, non è più statua in potenza remota (puro legno) né prossima (legno in lavorazione, che sta diventando una statua). Quindi un cadavere non è Papa in potenza (neppure remota) e non lo diverrà mai in atto. Perciò la Tesi del Papato materiale o in potenza si è esaurita con la morte di Paolo VI ed è stata completamente sorpassata con l’elezione di Benedetto XVI, che viene ritenuto dalla medesima Tesi non essere vescovo. Quindi il successore di Pio XII, dopo la morte del Papa materiale Paolo VI, che non è passato all’atto e non può più passarvi essendo defunto, non sarebbe più il successore formale di Pietro e sarebbe il Capo di una nuova “chiesa”, essenzialmente diversa da quella che ha fondato Gesù Cristo su Pietro. Ma ciò è contrario alla Fede cattolica rivelata e definita, che insegna l’apostolicità formale ed ininterrotta dei Papi da S. Pietro sino alla fine del mondo.

Se i “gerarchi” ecclesiali e spirituali sono i successori formali di Cristo, di Pietro e degli Apostoli, sono la Chiesa di Cristo come Cristo l’ha voluta; altrimenti sono un prodotto dell’intelletto in uno stato di “emergenza”. Tale “chiesa”, prodotto dell’intelletto umano, è essenzialmente diversa dalla Chiesa di Cristo. Il reale stato di emergenza o necessità in cui ci troviamo non ci autorizza a cambiare l’essenza della Chiesa, quale Cristo l’ha voluta e fondata, ideandone una in fieri o in potenza o materiale, che non è, ma diviene senza passare all’atto da oltre mezzo secolo. La Chiesa è stata, è e sarà in atto; non in divenire, proprio come Cristo è hodie, heri et in saecula, “semper idem” e non “semper in fieri”. La successione apostolica vera è quella formale, alimentata dalla sua radice, che è la ‘Pietra’, Cristo, e il suo Vicario in terra, ‘Pietro’. S. Agostino insegna che una semplice successione materiale, non unita formalmente con la sua radice, sarebbe sterile[2]. Come un tralcio che parte da rami recisi e secchi non è vivo e fruttuoso, così una successione apostolica solamente materiale è morta e mortifera. È una “successione” o “protuberanza” storica, cronologica, materiale, fisica, ma non apostolica, viva e vivificante[3].

 

Il Conciliarismo e la questione del “Papa eretico”

Il conciliarismo è un errore ecclesiologico, secondo il quale il Concilio ecumenico[4] è superiore al Papa. Come si vede tale errore assieme al Gallicanesimo è oggi molto attuale ed è ritornato alla ribalta “da sinistra” con la teoria della collegialità episcopale del Concilio Vaticano II e “da destra” con la dottrina dell’ indipendenza della chiesa nazionale francese dal Papa e dalla Chiesa universale. La dottrina cattolica, invece, insegna che il Papa da solo può tutto, mentre tutti i Vescovi senza il Papa non possono nulla.

L’origine remota di questo errore si trova nel principio giuridico contenuto nel Decreto di Graziano (dist. XL, c. 6) del IV secolo, secondo cui il Papa può essere giudicato dal Concilio ecumenico ‘imperfetto’ (sine Papa) in caso di eresia.

Quella del Papa eretico, però, è solo un’ipotesi, un’opinione discutibile, possibile, nemmeno probabile e assolutamente non è una certezza. I Dottori della Chiesa, soprattutto nella Controriforma, ne hanno discusso come di una pura possibilità ipotetica (“ammesso e non concesso che il Papa possa cadere in eresia…”). Senza arrivare ad un accordo unanime e mai ad una certezza, ognuno ha espresso la sua ipotesi possibile, al massimo probabile[5].

La teoria conciliarista diffuse l’opinione che in alcuni casi (ad esempio in caso di eresia) il Papa potesse essere sottomesso al giudizio dei suoi sudditi. Purtroppo nel Trecento, con le lotte tra Bonifacio VIII (†1303) e Filippo IV il Bello (†1314), il prestigio del Papato scemò e il vecchio principio di Graziano (†383) fu arricchito: il Papa può essere giudicato e deposto non solo in caso di eresia, ma anche quando esorbita nell’esercizio del suo potere.

Marsilio da Padova (†1343) è l’autore del Defensor pacis secondo cui il Papa non è il Vicario di Cristo in terra, ma tutti i ministri sacri hanno uguale potere e giurisdizione nella Chiesa. Il Papato sarebbe stato un’invenzione dell’Impero, che può giudicare e deporre i Papi. Il Concilio ecumenico è il supremo organo del regime ecclesiastico e non il Papa. Giovanni XXII (†1334) condannò questi errori di Marsilio, che furono peggiorati da Guglielmo di Occam (†1349). Quando il Grande Scisma d’Occidente funestò la Chiesa (1378-1417) molti, anche in buona fede, credettero di trovare in queste teorie oggettivamente ereticali la via di uscita da tanti mali.

Due dottori tedeschi dell’ Università di Parigi all’inizio del Grande Scisma ridussero a sistema la dottrina conciliarista: Corrado di Gelnhausen ed Enrico di Langestein. Il primo pubblicò nel 1380 la Epistula concordiae ove attribuisce ai vescovi convocati in Concilio il supremo potere sulla Chiesa; il secondo pubblicò nel 1379 la Epistula pacis in cui pone tale potere addirittura nei fedeli; inoltre entrambi caldeggiano le idee della convocazione di un Concilio ecumenico per uscire dall’ impasse del Grande Scisma.

Pierre D’Ailly (†1420), occamista convinto, riteneva con Corrado di Gelnhausen che la Chiesa è fondata su Cristo ma non su Pietro e perciò il Papa non è essenziale alla Chiesa. Quindi la giurisdizione deriva ai vescovi direttamente da Cristo e non tramite il Papa e i vescovi uniti in Concilio ecumenico sono la massima autorità della Chiesa. Il Papa è solo ministerialmente esercitante il potere nella Chiesa e lo dispensa amministrativamente e, siccome può anche cadere in eresia formale, può essere in tal caso deposto. Solo la Chiesa universale ovvero i vescovi uniti in Concilio ecumenico sono infallibili e «nel caso che anche tutto il clero cadesse nell’errore, vi sarà sempre qualche anima semplice e qualche pio laico che saprà custodire il deposito della divina Rivelazione» (Antonio Piolanti, voce “Conciliarismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1949, vol. III, col. 165). D’Ailly divenne vescovo di Cambrai, cardinale avignonese e co-presidente del Concilio di Costanza (1414-1418). Sotto papa Martino V (†1431), la cui elezione pose fine allo Scisma di Occidente, l’Ailly, però, sostenne la superiorità del Papa sul Concilio.

La Collegialità episcopale[6] o “gallicanesimo teologico” è stata costantemente condannata dal Magistero ecclesiastico sino a Pio XII, il quale ancora tre mesi prima di morire nell’enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958), ribadì per la terza volta, dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che la giurisdizione viene ai vescovi tramite il Papa. Il gallicanesimo o conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico una funzione suprema eguale se non superiore a quella del Papa.

Alla fine del XIII secolo il domenicano Giovanni da Parigi (†1306) insegnava che il Concilio può deporre il Papa qualora egli cada in eresia o abusi del suo potere (H. Jedin, Breve storia dei concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 96). Il principio speculativo da cui parte il conciliarismo è quello secondo cui “il Papa può personalmente errare, la Chiesa o il Concilio, no” (H. Jedin, ibidem, p. 97); la firmitas Ecclesiae non può risiedere nella infirmitas Petri, ma solo nella soliditas Concilii e il legame di Cristo con la Chiesa o il “collegio episcopale” è indissolubile, con il Papa no (H. Jedin, ibidem, p. 104). Quindi anche il Papa deve obbedienza al “collegio dei vescovi” e alla sua riunione in Concilio. “Il Concilio ecumenico radunato rappresenta l’intera Chiesa, il suo potere gli viene immediatamente da Cristo” (H. Jedin, ivi).

A Costanza si gettò la base della teoria di rendere il Concilio ecumenico “un’istituzione ecclesiastica stabile e per conseguenza una specie di istanza di controllo sul Papato” (H. Jedin, ibidem, p. 107). Per affermare la “libertà del Concilio” non si esitò a “ridurre il più possibile la pienezza dei poteri del Papa” (ibidem, p. 108). Con il Grande Scisma d’Occidente e la crisi del Papato “il ristabilimento dell’unità della Chiesa fu gravata da una pesante ipoteca. La teoria conciliarista, nata dallo stato d’emergenza in cui si trovava la Chiesa [con tre Papi], continuò a prosperare, benché incompatibile con la struttura gerarchica della Chiesa” (ibidem, p. 112). Il conflitto tra primato del Papa e conciliarismo è inevitabile, si tratti pure di un conciliarismo mitigato quale la collegialità episcopale.

Papa Martino V condannò solo indirettamente il conciliarismo sostenuto al Concilio di Costanza, per evitare un secondo scisma; storicamente non poteva fare di più (ibidem, p. 113). Vi sono epoche in cui la Chiesa non può esplicitare tutta la sua dottrina per evitare mali maggiori; queste epoche vi sono sempre state (Costanza, Basilea e Vaticano II) e ci potranno essere sempre sino a che il mondo non finisca. Molto spesso l’ottimo è nemico del buono e in certe contingenze occorre prendere atto dei fatti come si presentano realmente e non come li vorremmo noi. Sarebbe ottimo essere sempre in clima di Vaticano I, ma certe volte si è nel clima di Costanza, Basilea o Vaticano II. “C’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per piangere e uno per ridere, uno per tacere e uno per parlare, uno per far la guerra e uno per la pace”.

Giovanni Gersone (†1429), anche se personalmente pio, fu dottrinalmente discepolo di Pierre D’Ailly e andò oltre il suo maestro nell’errore ecclesiologico conciliarista e lo sostenne strenuamente al Concilio di Costanza (1414-1418). Infatti, mentre D’Ailly seguiva il Gelnhausen secondo cui la gerarchia ecclesiastica è fondata sui vescovi riuniti in Concilio (aristocrazia episcopale), Gersone seguì il Langestein e prima fondò la Chiesa sui parroci e poi anche sui semplici fedeli (democrazia temperata e multitudinarismo radicale), i quali trasmettono il potere ai parroci e ai vescovi. Quindi non solo il Concilio, ma anche i fedeli possono giudicare il Papa e deporlo. Siccome Gersone era uomo di grande pietà personale, tali errori, garantiti dalla sua persona, ebbero maggior successo e provocarono danni maggiori quando furono fatti propri dai Concili di Costanza (1414-1418) e di Basilea-Ferrara (1431; 1433-37) terminato a Firenze (1438-1442) e infine spostato a Roma (1445).

Questi errori portarono poi all’ eresia di Hus (†1415) e finalmente al luteranesimo, «per rifugiarsi, dopo il Concilio di Trento, presso i cattolici francesi, che in nome delle ‘libertà gallicane’ osteggiarono per secoli il libero esercizio dell’autorità pontificia. Tale errore si fece ancora sentire durante il Vaticano I, che lo condannò solennemente (DB 1830)» (A. Piolanti, ivi, coll. 165-166; cfr. D. Th. C, I, coll. 642-654, voce “D’Ailly”; Id., ibidem, voce “Gersone”, VI, coll. 1200-1224).

Il Conciliarismo, come si è visto, è ritornato in auge ai tempi del Concilio Vaticano II “da sinistra” con la teoria della “collegialità episcopale”.

 

Il Gallicanesimo

....Continua sull'edizione cartacea


[1] Si noti che l’escamotage di un Collegio cardinalizio soltanto materiale, il quale può eleggere validamente un Papa, ma non governare in atto la Chiesa, non salva l’apostolicità formale. Infatti, se il Papa materiale non passa all’atto diventando così Papa formale, la catena ininterrotta dei Papi si spezza e la Chiesa finisce.

[2] Psalmus contra partem Donati, PL 43, 30.

[3] S. Aug., Ep. 223, 3. Cfr. B. Gheradini, La Cattolica, cit., pp. 121-124.

[4] Il Concilio è “generale” o “ecumenico” quando è rappresentato da tutta la Chiesa, ossia dal Papa o da un suo legato e dalla maggior parte dei vescovi delle province ecclesiastiche. Siccome il Papa gode del primato di giurisdizione su tutta la Chiesa, non vi è vero Concilio ecumenico se non è stato convocato dal Papa, celebrato sotto la sua presidenza e confermato dalla sua sanzione. Il Papa è superiore al Concilio. Quindi il Concilio non può giudicare il Papa. Il Concilio è “particolare” se rappresenta solo una parte della Chiesa: una nazione (“Concilio nazionale”) o più province (“Concilio plenario”) o una sola provincia (“Concilio provinciale”).

[5] La prima tesi (san Roberto Bellarmino, De Romano pontifice, libro II, capitolo 30; Francisco Suarez, De fide, disputa X, sezione VI, n.° 11, p. 319; cardinal Louis Billot, De Ecclesia Christi, tomo I, pp. 609-610) sostiene che un Papa non può cadere in eresia dopo la sua elezione, ma analizza anche l’ipotesi puramente teorica (ritenuta solo possibile) di un Papa che può cadere in eresia. Come si vede questa ipotesi non è ritenuta per certa dal Bellarmino né dal Billot, ma solo speculativamente possibile.

La seconda ipotesi (che il Bellarmino qualifica come possibile, ma molto improbabile, ivi, p. 418) sostiene che il Papa può cadere in eresia notoria e mantenere il pontificato; essa è sostenuta solo dal canonista francese D. Bouix (†1870, Tractatus de Papa, tomo II, pp. 670-671), su ben 130 autori.

La terza ipotesi sostiene che, ammesso e non concesso cada in eresia, il Papa perde il pontificato solo dopo che i cardinali o i vescovi abbiano dichiarato la sua eresia (Cajetanus, De auctoritate Papae et concilii, capitolo XX-XXI): il Papa eretico non è deposto ipso facto, ma deve essere deposto (deponendus) da Cristo dopo che i cardinali hanno dichiarato la sua eresia manifesta ed ostinata.

La quarta ipotesi sostiene che il Papa, se cade in eresia manifesta, perde ipso facto il pontificato (depositus). Essa è sostenuta dal Bellarmino (ut supra, p. 420) e dal Billot (idem, pp. 608-609) come meno probabile della prima ipotesi, ma più probabile della terza. Come si vede si tratta solo di ipotesi, di possibilità teoretiche, neppure di probabilità, e mai di certezze teologiche.

 

[6] Durante il Concilio Vaticano II «la dottrina che attribuiva al Collegio dei vescovi (del quale il singolo entra a far parte con la consacrazione episcopale) unito al suo capo, il Papa, potere e responsabilità sulla Chiesa intera» era ritenuta da Siri, Staffa, Carli, Parente «recante detrimento al potere primaziale del Papa ed essi contestavano che avesse solide basi nella S. Scrittura» (H. Jedin, Breve storia dei concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 240). Inoltre si riteneva che «il vescovo consacrato diventi per ciò stesso membro del Collegio episcopale [avente giurisdizione], che assieme al Papa e mai senza di esso possiede la suprema potestà sopra tutta la Chiesa» (Ibidem, p. 243). Per quanto riguarda la ‘Nota explicativa praevia’, essa «nulla toglie alla dottrina della immediata origine divina dell’ufficio e del mandato episcopale [e non tramite il Papa], nonché della responsabilità del Collegio episcopale per la Chiesa universale [e non sulla sola diocesi del singolo vescovo]» (Ibidem, p. 265). Invece la dottrina tradizionale, ribadita sin nel 1958 da Pio XII, insegna che la giurisdizione sulla sua singola diocesi giunge al vescovo da Dio tramite il Papa, il quale dopo la consacrazione gli dà il potere di giurisdizione realmente distinto dal potere d’ordine. Inoltre il Papa, se vuole, può far partecipare il Corpo dei vescovi (non il Collegio, che era solo quello degli Apostoli) alla sua suprema potestà di magistero e d’ impero sulla Chiesa universale, riunendoli in Concilio ecumenico, per il solo tempo della durata del Concilio. Quindi il Corpo dei vescovi non è un ceto stabile e permanente che con Pietro e sotto Pietro ha il supremo potere di magistero ed impero su tutta la Chiesa. Come si vede, la Collegialità è strettamente imparentata, anche se in maniera più sfumata o mitigata, con il conciliarismo e il gallicanesimo teologico.