Contro la “peste dell’età nostra” (2a parte)    IV

La vera dottrina della Chiesa in questa materia

In effetti, la Chiesa non ha mai accettato che lo Stato, per principio, debba essere laico, cioè neutrale in materia religiosa. Lo si può constatare facilmente, percorrendo la storia della Chiesa dalla fine del Medioevo.

Infatti, quanto affermiamo è contenuto nella definizione di Bonifacio VIII, Papa dal 1294 al 1303, secondo cui è necessario per la salvezza che ogni creatura si sottometta al Romano Pontefice[1]. Lo si ritrova, ancora di più, nella ininterrotta condanna dell’indifferentismo religioso, indicato come la causa dell'apostasia delle nazioni. Difatti, l'indifferentismo religioso è unito da un vincolo necessario con la proposizione secondo cui lo Stato deve essere, per principio, laico. Ora, questa conseguenza logica dell'ateismo ufficiale consacrato nello Stato laico, costituita dall'indifferentismo religioso, i Sommi Pontefici la denunciano, specialmente a partire dalla Rivoluzione francese, come l'ostacolo maggiore alla piena realizzazione del regno di Nostro Signore Gesù Cristo.

Da Pio VI a Gregorio XVI

Pio VI, nella sua prima enciclica Inscrutabile divinae sapientiae consilium, del Natale 1775, Leone XII nella enciclica Ubi primum, del 5 maggio 1824, Pio VIII, Papa dal 1829 al 1830, nella Traditi, unica sua enciclica, scritta all'inizio del suo pontificato di soli 20 mesi, tutti nella veste di Vicario di Cristo sulla terra, mossi dallo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, angustiati additano all'unanimità nell’ indifferentismo religioso la causa dei mali che affliggono la società e impediscono l’azione della Chiesa.

Pio VII, che governò la Chiesa nel periodo difficilissimo della egemonia napoleonica (1800-1823), non smise di condannare l’uguaglianza dei culti desiderata da Bonaparte: «Sotto uguale protezione di tutti i culti – avvertiva il Papa – si nasconde e si occulta la più pericolosa persecuzione, la più insidiosa che sia possibile immaginare contro la Chiesa di Gesù Cristo e, disgraziatamente, la meglio organizzata per disseminare in essa la confusione e addirittura per distruggerla, se fosse possibile che le forze e le astuzie dell’ inferno prevalessero contro di essa». Con la restaurazione dei Borboni, Pio VII lamentò l’analoga posizione  presa dalla Costituzione di Luigi XVIII, essa pure favorevole alla libertà di tutti i culti.

Anche Gregorio XVI dovette condannare questo «delirio›› – come chiama l’indifferentismo religioso e la libertà di tutti i culti all'interno della Chiesa – poiché lo stesso era professato, come abbiamo visto, da ecclesiastici e da laici influenti, ed essi, con straordinaria cecità, non dubitavano di presentarlo come misura grandemente vantaggiosa per la causa della religione[2].

«Quanta Cura» e il «Sillabo››

Nonostante tali autorevoli chiarimenti e condanne, amati figli, la valanga delle idee nuove si ingigantì, e crebbero le minacce contro «la causa della Chiesa cattolica, la salute delle anime [...] e lo stesso bene della società civile». Per questo Pio IX riprende la tradizione magisteriale dei suoi predecessori per condannare di nuovo e ripetutamente tali fuorviamenti della mente umana con parecchie encicliche e allocuzioni pronunziate in Concistoro, e con altre lettere apostoliche. L’ importanza della materia, per la missione della Chiesa, era tanto grande che il Papa ritenne doveroso, dato il suo munus di Vicario di Cristo, emettere un documento speciale e più solenne del Magistero pontificio, in cui risultasse lampante l'opposizione radicale tra le nuove concezioni naturalistiche dello Stato, della cultura e della civiltà e la dottrina cattolica.

Pertanto ordinò che si componesse un elenco riassuntivo di tutti questi errori in proposizioni che li esprimessero in modo inequivocabile e al tempo stesso mostrassero il nesso logico tra loro esistente. È l'atto del Magistero papale conosciuto col nome di Sillabo, che Pio IX indirizzò ai vescovi del mondo intero con l'enciclica Quanta cura dell'8-12-1864.

In esso il Pontefice proscrive la tesi del laicismo di Stato, in quanto impedisce l'azione che, per divino mandato, la Chiesa ha il compito di realizzare. «Le quali false e perverse opinioni – scrive Pio IX  – sono tanto più detestabili, in quanto mirano specialmente a impedire e distruggere quella forza salutare che la Chiesa Cattolica, secondo l'istituzione e la missione del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei secoli non meno verso gli uomini singoli che verso le nazioni, i popoli, i loro sovrani, e a distruggere quella vicendevole società e concordia di intenti tra il sacerdozio e l'impero, che fu sempre tanto felice e vantaggiosa alla Chiesa e allo Stato»[3].

Di conseguenza Pio IX qualifica come empietà temeraria l'impegno di quanti, in accordo con l’empio e assurdo principio del naturalismo, insegnano che «una migliore costituzione dello Stato ed il progresso civile esigono assolutamente che la società umana sia costituita e governata senza alcun riguardo alla religione, come se non esistesse, o almeno senza fare alcuna differenza fra la vera e le false religioni». E – continua il Papa – «contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri non dubitano di asserire: “La migliore condizione della società è quella, in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della religione cattolica, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete”»[4].

La tradizione in Leone XIII

Nonostante tutta la vigilanza di Pio IX, amati figli, le idee nuove continuarono a diffondersi e a mettere a repentaglio l'esistenza della Chiesa, in quanto società di diritto pubblico, che realizza sulla terra il regno di Dio, avendo di mira la salvezza eterna degli uomini. Fu perciò necessario al successore di Pio IX riaffermare l'insegnamento cattolico contro il naturalismo e il laicismo dello Stato, che scalzavano l'edificio del regno sociale di nostro Signore Gesù Cristo.

Leone XIII colpì il male alla radice, denunciando il principio fondamentale su cui si basa lo Stato laico, indifferente in materia spirituale, interamente autonomo di fronte a qualsiasi confessione religiosa, ossia il principio secondo cui il potere deriva dal popolo.

«Non v'è potestà se non da Dio» insegna lo Spirito Santo per bocca dell'Apostolo[5]. «Ogni potere viene dal popolo››, sentenziano invece la Rivoluzione, il diritto nuovo. Questo contrappone Dio e l'uomo come due persone totalmente estranee, l'una autonoma nei confronti dell'altra. Nell' uomo, nella volontà libera, sovrana  – afferma il diritto nuovo  – lo Stato affonda le sue radici come nella sua fonte prima, cosicché la società politica non accetta superiore alcuno che non sia il popolo, la cui volontà si conosce attraverso il suffragio universale.

In ciò Leone XIII addita la causa della apostasia sociale. Infatti tale principio giustificherebbe uno Stato agnostico e addirittura ateo, molto accondiscendente o neutro in questioni religiose.

D'altra parte, in questo principio si consuma la ribellione della creatura, poiché è l'espressione sociale del grido satanico «non serviam», «non servirò››; com’è, inoltre, l’ espressione dell'empio ideale suggerito dall'angelo delle tenebre ai nostri progenitori: «sarete come dei, conoscendo il bene ed il male»[6].

Ecco perché, allo scopo di tagliare il male alla radice, Leone XIII, nella enciclica Diuturnum illud del 29 giugno 1881, tratta ampiamente dell'origine dell'autorità politica, per esporre con esattezza la dottrina della fede, corroborata dalla ragione e frontalmente contraria all’ insegnamento del diritto nuovo, e la cui accettazione è indispensabile alla «Chiesa per la pienezza della sua missione, sulla terra». Ricorda il Pontefice, basandosi su San Paolo[7] e su San Pietro[8], che ogni potere viene da Dio e pertanto chi resiste all'autorità resiste a un ordine divino, il che potrebbe comportare la sua condanna, perché coloro che governano lo fanno come ministri di Dio.

Questo principio primo del civile ordinamento della società comporta le due conseguenze indispensabili affinché nello Stato si costituisca pubblicamente il regno di Dio. In primo luogo le autorità civili non possono fare nulla che vada contro la legge del Signore. Infatti, se governano come mandatari di Dio, il loro potere è limitato dai decreti di Colui, per volontà del quale esercitano il potere. In secondo luogo, in virtù del medesimo principio fondamentale, fra gli obblighi più importanti della pubblica autorità vi è quello di prestare un culto ufficiale a Dio, suo sovrano Signore. E non un culto qualsiasi, ma il culto voluto da Dio, ossia il culto vero, quello che gli viene tributato dalla Chiesa cattolica. «A nessuno è lecito – nota il Papa – trascurare i propri doveri verso Dio [...]; così gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse, o non curarsi della religione come di cosa estranea e di nessuna importanza, e adottarne indifferentemente una fra le molte, avendo invece l'obbligo di onorare Iddio in quella forma ed in quel modo che Egli stesso mostrò di volere»[9].

Quindi, la dottrina sull'origine divina del pubblico potere si svolge logicamente nelle due concernenti l'atteggiamento religioso dello Stato: quella dell'armonia tra la società religiosa e quella civile, tra la Chiesa e lo Stato, e quella della subordinazione di quest'ultimo alla prima negli affari religiosi, spirituali. Come vedete, amati figli, siamo nel solco della medesima dottrina dei primi secoli della Chiesa, secondo il principio di San Vincenzo di Lerino canonizzato dal Concilio Vaticano I: «Nella Chiesa cattolica si deve avere il massimo impegno nel professare ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto»[10].

In un'epoca in cui si accentuava 1'apostasia delle nazioni, un tema di così grande importanza richiedeva un’attenzione speciale da parte della Santa Sede. Leone XIII corrispose alla aspettativa dei fedeli attraverso varie encicliche, specialmente la Immortale Dei, del 1° novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati.

Ancora oggi [anzi, oggi più che mai -ndr], amati figli, la lettura di questi documenti del Magistero papale è di grande opportunità.

La tolleranza del male

Nell'insegnamento politico di Leone XIII la dottrina tradizionale sui due poteri, quello spirituale e quello temporale, Chiesa e Stato, è presentata  sotto la forma di una esposizione sistematica e chiara, che dissipa qualsiasi dubbio in proposito. È naturale che a esso si richiamino i Papi posteriori. Cosi san Pio X, nella enciclica Vehementer dell'11 febbraio 1906 sulla rottura delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede da parte del governo francese, come pure nella lettera apostolica Notre charge apostolique del 25 agosto 1910 sugli errori del già citato movimento Sillon; Benedetto XV nella sua prima enciclica Ad beatissimi del 1° novembre 1914; Pio XI in diversi documenti ma specialmente in quello che al1'inizio abbiamo richiamato sulla regalità di Gesù Cristo, in cui lancia un appello ai fedeli affinché si uniscano per debellare la «peste della età nostra [...] il così detto "laicismo"»; Pio XII nella sua prima enciclica Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939 riprende l’ argomento dell'enciclica Quas primas di Pio XI dell'11 dicembre 1925, allo scopo di inculcare di nuovo in modo insistente la regalità sociale di nostro Signore Gesù Cristo.

D'altra parte Pio XII, durante il suo lungo pontificato, affrontò in varie occasioni questo argomento. Così, nel discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani del 6-12-1953, fissa lo stesso principio già stabilito da Leone XIII: «Ciò che non risponde alla verità e alla norma morale non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione»[11]. L'uomo, infatti, è stato creato per la verità e per il bene. E nello sforzo per giungere alla conoscenza della verità e alla pratica del bene gode, in virtù della sua natura sociale, del diritto di essere aiutato dall'ambiente creato nella società a opera dello Stato. Ora, uno Stato che, per principio, permettesse o favorisse la professione e la pratica pubblica di religioni false o di princìpi contrari alla norma della moralità, non aiuterebbe ma renderebbe di fatto più difficile la pienezza della vita razionale dei suoi membri. D'altronde, questa è la ragione invocata da Pio XII per giustificare la sua intolleranza dottrinale: «È contro natura di obbligare lo spirito e la volontà dell’uomo all’ errore ed al male o a considerare l’uno e l'altro come indifferenti. Neppure Dio potrebbe dare un tale positivo mandato o una tale positiva autorizzazione, perché in contraddizione con la Sua assoluta veridicità e santità». Di per sé, pertanto, lo Stato ha l'obbligo grave di favorire la vera religione e di reprimere i culti falsi.

Tuttavia, l'applicazione di questo principio dev'essere prudente. In altre parole, rientra nei disegni della Provvidenza che il potere pubblico ponderi bene la situazione di fatto del popolo, o della federazione di popoli, in materia religiosa; e che richiedendolo le circostanze tolleri o meno, a fianco della vera religione, culti falsi o superstiziosi. Ma non potrà mai approvare, positivamente, l'esistenza e la propaganda di tali culti. Ciò nonostante, le condizioni reali in cui si trova la società possono essere tali che un atto legislativo, che permette l'esistenza e addirittura la propaganda di determinate credenze false, costituisca un'azione dal duplice effetto: quello cattivo, che è la pubblica permissione della superstizione, e quello buono, che è la pacificazione dei conflitti che renderebbero impossibile la vita in comune, o altri simili beni. Infatti, in queste circostanze concrete, lo Stato può tollerare l'esistenza e la pratica delle false religioni, purché lo esiga il bene comune, che è la norma regolatrice dei diritti e dei doveri dello Stato.

Situazione anormale

Come Leone XIII anche Pio XII lascia intendere molto chiaramente che, tuttavia, tale situazione, per ciò che si riferisce alle relazioni tra lo Stato, la religione e il culto divino, non è quella ideale. Mai e in nessun modo essi accettano la tesi dello Stato laico, fondata sulla finalità propria della società civile, finalità che sarebbe unicamente temporale. Tuttavia sono portati a giustificare la tolleranza del male, che è la neutralità religiosa dello Stato, dal momento in cui e soltanto quando una imperativa esigenza sociale la renda imprescindibile. La tolleranza, nell' ordine pratico, trova la sua garanzia nel modo stesso di agire di Dio nostro Signore, il quale desidera che l'uomo giunga alla fede attraverso una libera determinazione della sua volontà. Questo modo di agire viene illustrato nella parabola evangelica della zizzania seminata dall'uomo nemico nel campo in cui il padre di famiglia ha piantato il grano. Nonostante che l’esistenza della zizzania sia un male, il Signore, tuttavia, permette che cresca in mezzo al grano, in quanto il bene costituito dal suo sradicamento potrebbe ridondare in un male maggiore, oppure impedire qualche bene eccellente. Nella parabola il male maggiore è il pericolo di perdere anche il grano.

San Tommaso d'Aquino illustra come l'autorità civile possa tollerare alcuni mali nella società. «Il regime umano – insegna il Dottore Angelico – deriva dal governo divino e deve imitarlo. Accade che Dio, benché sia onnipotente e sommamente buono, permetta, ciò nonostante, che si verifichino certi mali nell'universo (che Egli potrebbe impedire), affinché non vadano perduti beni maggiori con l'assenza di quei mali, oppure non capitino mali ancora più grandi. Così, nel governo delle cose umane i governanti possono lecitamente tollerare qualche male, affinché non si impediscano certi beni, oppure anche perché non capitino cose peggiori»[12]. Tuttavia, è necessario non dimenticare che la tolleranza riguarda soltanto le cose cattive[13]. Perciò non è mai un bene in sé e non può, di conseguenza, arrogarsi diritti.

L’atto di Fede deve essere libero, ma ciò non dà nessun diritto di cittadinanza all’errore

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[1] Cfr. Bonifacio VIII, Bolla Unam sanctam, del 18-11-1302.

[2] Cfr. Gregorio XVI, Enciclica Mirari vos, del 15-8-1832.

[3] Pio IX, Enciclica Quanta cura, dell’8-12-1864.

[4] Ibidem.

[5] Rom. 13, 1.

[6] Gen. 3, 5.

[7] Rom. 13, 1.

[8] 1 Pt. 2, 13-15.

[9] Leone XIII, Enciclica Immortale Dei.

[10] San Vincenzo di Lerino, Commonitorium, 2, 5, in Kirch, Enchiridion fontium historiae ecclesiasticae antiquae 742.

[11] Pio XII, Discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani del 6-12-1953.

[12] San Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 10. a.11.

[13] Cfr. Sant’Agostino. En. in Psal. I. 20.