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Categoria: Anno 2009

LA DEFINIZIONE DI MORTE E IL SUO ACCERTAMENTO

1. Introduzione storica

Le origini della nuova definizione di morte ed il sostegno che essa ha subito incontrato tanto in ambiente scientifico quanto in ambito filosofico sono state esplorate in numerosi lavori,[1] come pure la ricostruzione del pensiero di un autore che per primo ha avanzato seri dubbi sull’ introduzione della nuova definizione di morte, Hans Jonas,[2] ed il suo confronto con un filosofo distante per modo di pensare anni luce da lui, Peter Singer,[3] il quale tuttavia per quel che riguarda la valutazione della definizione di morte cerebrale è giunto – quasi venti anni dopo – alle stesse conclusioni del filosofo tedesco. Non mancano le critiche rivolte da medici e filosofi, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Novanta, all’aver voluto individuare nella morte cerebrale il segno della morte dell’essere umano[4].

Verso la fine degli anni Cinquanta nei reparti di terapia intensiva, allora in formazione, si verifica l’ introduzione delle tecniche rianimatorie, che generano qualcosa di nuovo e di inatteso. Per un verso, infatti, quelle tecniche in molti casi consentivano di salvare la vita di pazienti che avevano subìto un grave trauma cranico accompagnato da momentaneo arresto cardiorespiratorio; d’altro canto, però, la rianimazione poteva non sortire l’effetto sperato e il paziente, pur non mostrando alcun segno di attività cerebrale, continuava ancora per qualche giorno a vivere prima di andare incontro al definitivo arresto cardiocircolatorio. Si parlò allora di “coma dépassé” (coma oltre il coma),[5] per descrivere la condizione clinica di pazienti che, grazie al trattamento di rianimazione, continuavano ancora ad essere vivi, anche se la loro sorte era irrimediabilmente segnata.

Era questo il prezzo da pagare allo sviluppo delle tecniche rianimatorie che, se da una parte, permettevano di salvare la vita di molti pazienti, i quali altrimenti sarebbero sicuramente morti, dall’altra potevano pure prolungare l’agonia di alcuni pazienti. […].

Il grosso problema, al contempo etico e giuridico, che si apriva era il seguente: che fare di quei pazienti condannati ad una prognosi infausta? Non va altresì dimenticato che più o meno nello stesso periodo, e cioè verso la fine degli anni Cinquanta, cominciano a svilupparsi anche altre tecniche in campo medico; tecniche che mirano al prelievo di parti del cadavere a scopo di trapianto terapeutico. Le difficoltà erano duplici: per la riuscita del trapianto bisognava disporre di organi vitali e bisognava altresì prevenire il rigetto. Se la seconda difficoltà venne lentamente superata dai continui miglioramenti dei farmaci anti-rigetto, la prima sembrava destinata a rimanere irrisolta, sino a quando non ci si rese conto che la tecnica del trapianto poteva trovare un insospettato aiuto proprio dalle tecniche rianimatorie: quali pazienti potevano offrire le migliori condizioni per il prelievo di organi se non proprio quelli che la rianimazione ci aveva restituito perfettamente integri e vitali nei loro corpi, anche se destinati a non riprendersi mai più, perché il loro cervello era irreversibilmente spento?

È in questa situazione che deve essere contestualizzato l’ormai celebre Rapporto di Harvard, pubblicato nell’agosto del 1968. Consentitemi di citare l’incipit:

«Il nostro obiettivo principale è definire come nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità di una definizione si impone per due ragioni: 1) il miglioramento delle misure di rianimazione e di prolungamento della vita ha prodotto un impegno sempre maggiore per salvare persone affette da lesioni disperatamente gravi. A volte questi sforzi hanno un successo soltanto parziale e quello che ci troviamo di fronte è un individuo il cui cuore continua a battere, pur in presenza di un cervello irrimediabilmente danneggiato. Il peso di questa situazione è enorme non solo per i pazienti, ormai totalmente privi di intelletto, ma anche per le loro famiglie, per gli ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno di posti letto già occupati da questi pazienti in coma. 2) I criteri di morte obsoleti possono innescare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti»[6].

Sulla base di questo ragionamento quel Comitato avrebbe potuto proporre la sospensione di un trattamento ormai futile e privo di qualsiasi beneficio per il paziente, ed eventualmente avanzare l’ipotesi di consentire, nel rispetto di alcune condizioni, il prelievo di organi. Sul primo punto si sarebbe potuto trovare largo consenso (nessuno, almeno in linea di principio, vorrebbe rimanere intubato e attaccato ad un respiratore sapendo che quella situazione è irreversibile), molto più difficile (ma non per questo impossibile) sarebbe stato trovarlo sul secondo: se il paziente in coma irreversibile è comunque ancora vivo non era proprio il prelievo ad ucciderlo? Probabilmente fu proprio questo interrogativo il motivo che spinse il Comitato a fare il seguente ragionamento. Se si fosse dichiarato morto il paziente che sino ad allora era considerato ancora vivo, allora tanto lo “staccargli la spina” quanto il prelevargli il cuore ancora pulsante non sarebbe stato in alcun modo paragonabile ad un omicidio: si può uccidere soltanto un uomo che è ancora vivo, non un cadavere.

Con una apparentemente abilissima mossa il Comitato aveva preso – come suol dirsi – due piccioni con una fava. Una volta dichiarati morti tutti quei pazienti che si trovavano in coma irreversibile, spegnere il respiratore, oppure tenerlo ancora acceso in vista di un prelievo in condizioni ottimali ai fini del trapianto, non costituiva alcun problema poiché il paziente era comunque morto. Insomma, non si spegneva il respiratore ad un paziente per consentirgli di morire dignitosamente, ma ad un paziente già morto, e allora anche il tenerlo ancora per un po’ acceso era irrilevante.

Fu così che quella che sino ad allora veniva indicata come prognosi infausta diventò una diagnosi di morte, da accertare peraltro con rigorosi criteri clinico-strumentali che avrebbero dovuto assicurare con certezza che l’intero encefalo era morto e cioè lo stato di coma profondo, l’assenza di tutti i riflessi, compresi quelli del midollo spinale, l’assenza di respirazione spontanea dopo avere staccato il respiratore per tre minuti, il tracciato elettroencefalografico piatto. Tutti questi requisiti dovevano essere confermati per un periodo di ventiquattro ore. Non sarebbe difficile mostrare come nel corso degli anni questi requisiti si siano molto allentati, il periodo di osservazione è oggi di solo sei ore e dei riflessi spinali – poiché ci si è accorti che spesso sono presenti nei morti cerebrali – non si tiene più conto. I criteri neurologici per l’ accertamento della morte sono stati introdotti rapidamente in molti Paesi occidentali, con scostamenti significativi rispetto a quelli fissati nel rapporto di Harvard. […].

* * *

Nel corso degli anni Novanta si sono verificati alcuni fatti che hanno iniziato ad incrinare il consenso scientifico generalizzato che sussisteva sulla nozione di morte cerebrale. Non solo da parte di filosofi e giuristi ma anche da parte di autorevoli medici sono cresciute le perplessità su una definizione che da principio era stata quasi universalmente accolta.

Come è noto, il primo grande critico della definizione di Harvard fu Hans Jonas,[7] in un saggio scritto immediatamente dopo la pubblicazione del documento di Harvard. Sebbene il suo atteggiamento controcorrente sia rimasto inizialmente isolato,[8] negli ultimi tempi anche in ambito filosofico le voci di dissenso sono andate aumentando e oggi tra i critici della definizione di morte cerebrale possiamo persino annoverare autori come Peter Singer,[9] che muovono da una concezione filosofica diametralmente opposta a quella di Jonas. Ralf Stoecker, ad esempio, ha recentemente sostenuto con argomenti stringenti la necessità di oltrepassare il dibattito etico-medico intorno alla morte cerebrale in un dibattito filosofico-morale che sfoci non in una (qualsiasi) definizione di morte, bensì in un’etica per il trapianto d’organi.[10] Anche il filosofo Josef Seifert ritiene filosoficamente non accettabile e scientificamente non attendibile la definizione di morte basata su criteri neurologici[11].

In tutti questi autori, sebbene siano diversi i punti di partenza, vi è tuttavia la comune consapevolezza del fatto che individui cerebralmente morti non sono ancora in realtà cadaveri (e dunque non possano essere trattati come tali) e le divergenze vertono semmai sul modo in cui possano essere trattati individui la cui possibilità di un ritorno alla vita cosciente è comunque ormai definitivamente esclusa.

Ma l’aspetto forse ancora più interessante è che le crepe nella definizione di Harvard cominciano sempre più chiaramente ad essere messe in evidenza anche in ambito medico. La morte cerebrale totale non riesce a dimostrare ciò che invece vorrebbe provare, vale a dire l’assenza irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Su questa conclusione oggi vi è in ambito scientifico ampia convergenza, più di quanto venga pubblicamente ammesso, anche da parte di coloro che comunque continuano a sostenere la necessità di mantenere una definizione di morte basata su criteri neurologici. Sotto il profilo giuridico va qui sottolineato che, se attualmente si procede agli espianti nonostante si sappia che non sono ancora cessate irreversibilmente tutte le funzioni cerebrali, si sta espiantando quando a rigor di legge il donatore è ancora vivo. […].

* * *

Le risultanze delle osservazioni cliniche e la sempre più ampia letteratura che le documentava non potevano rimanere trascurate. Il President’s Council on Bioethics nel gennaio 2009[12] ha licenziato un documento nel quale vengono messi in evidenza le principali tappe dell’ evoluzione nel modo di intendere la morte, dovute soprattutto alla pubblicazione del rapporto di Harvard nel 1968, e prende atto dei più recenti sviluppi del dibattito internazionale che hanno portato a mettere in dubbio la validità della giustificazione della teoria neurologica che fino ad oggi ha permesso ai medici di dichiarare il decesso di pazienti con lesioni neurologiche irreversibili (corrispondenti alla cosiddetta “morte cerebrale totale”).

Il fatto sorprendente è che il Consiglio per continuare a giustificare l’impiego dei criteri neurologici per determinare la morte ha dovuto ricorrere ad alcune “manipolazioni” filosofiche. Innanzitutto ha specificato che un individuo nel quale vengano meno alcuni scambi (commerce), che gli consentono di conservare la propria esistenza fisica, si può considerare morto. Tali scambi, che il Consiglio indica essenzialmente nella capacità di respirare spontaneamente e di rispondere alle sollecitazioni che provengono dall’ ambiente nel quale l’individuo vive, cessano quando il soggetto subisce un total brain failure (ossia la perdita della capacità del cervello di funzionare normalmente). Questa condizione, che fino ad oggi veniva chiamata whole brain death, può essere diagnosticata con i criteri neurologici standard in uso; ciò che cambia è la giustificazione per il loro impiego: non si fa più affidamento sulla teoria dell’integratore centrale, perché i lavori di Shewmon [neurologo pediatrico statunitense][13] hanno dimostrato che il cervello non è l’integratore centrale dell’ organismo, ma si poggia su una teoria filosofica che concepisce la vita (e di conseguenza la morte) come capacità dell’individuo di interagire con l’ambiente, di stabilire relazioni con esso finalizzate alla conservazione della propria esistenza.



[1] Oltre a diversi articoli, si vedano ad esempio i volumi: P. Becchi, La morte nell’età della tecnica, Genova, Compagnia dei Librai, 2002; in collaborazione con R. Barcaro Questioni mortali. L’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, Napoli, E.S.I., 2004 (che raccoglie in forma antologica, una serie di voci critiche sulla morte cerebrale); P. Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi, Brescia, Morcelliana, 2008, in collaborazione con R. Barcaro e P. Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, Milano, Franco Angeli, 2008.

[2] Cfr. H. Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani. Sulla ridefinizione pragmatica della morte, in R. Barcaro, P. Becchi (a cura di), Questioni mortali, cit., pp. 47-67; cit. p. 54. Per un approfondimento cfr. il mio contributo H. Jonas, la nuova definizione di morte e il problema del trapianto di organi. Una prima approssimazione, in “Ragion pratica”, 27, 2006, pp. 501-514.

[3] Cfr. P. Singer, Rethinking Life & Death. The Collapse of Our Traditional Ethics (1994), trad. it. Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 65. Con riferimento al tema qui trattato cfr. P. Becchi, Un passo indietro e due avanti. Peter Singer e i trapianti, in “Bioetica”, 10, 2, 2002, pp. 226-247.

[4] Oltre ai volumi già citati nella nota 1, il lettore italiano può accedere agli interventi di medici – soprattutto statunitensi e britannici – critici sull’impiego dei criteri neurologici per l’accertamento della morte attraverso la lettura dei seguenti volumi: Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita? (2006), a cura di R. de Mattei, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007 e C.A. Defanti, Vivo o morto?, Milano, Zadig, 1999 e Id., Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

[5] Cfr. P. Mollaret, M. Goulon, Le Coma Dépassé, in “Revue Neurologique”, 101, 1, 1959, pp. 3-15. La ricostruzione complessiva è offerta da C.A. Defanti, Vivo o morto? La storia della morte nella medicina moderna, cit., e Id., Soglie. Medicina e fine della vita, cit.

[6] Cfr. A Definition of Irreversible Coma. Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death, in “Journal of the American Medical Association”, 205, 6, 1968, pp. 337-340 (p. 337).

[7] Cfr. H. Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, a cura di P. Becchi, Torino, Einaudi, 19992, pp. 167-184.

[8] Cfr. D.A. Shewmon, Recovering from “Brain Death”. A Neurologist’s Apologia, in “Linacre Quarterly”, February 1997, pp. 30-96, in cui l’autore dà conto delle opposizioni alla definizione di morte proposta dalla Commissione ad hoc di Harvard. Shewmon cita filosofi (come Hans Jonas e Josef Seifert) ma pure medici (come D.W. Evans, il pediatra Paul Byrne e il neurologo Sean O’Reilly), ricordando che si è trattato di voci isolate di dissenso.

[9] Cfr. P. Singer, Morte cerebrale ed etica della sacralità della vita, in “Bioetica”, 1, 2000, pp. 31-49. Per una ricostruzione dello sviluppo del pensiero di Singer su questo tema cfr. P. Becchi, Un passo indietro e due avanti. Peter Singer e i trapianti, in “Bioetica”, 2, 2002, pp. 226-247.

[10] R. Stoecker, Der Hirntod. Ein medizinethisches Problem und seine moralphilosophische Transformation, Freiburg/München, Alber, 1999.

[11] Cfr. J. Seifert, Is “Brain Death” Actually Death?, in “The Monist”, 76, 2, 1993, pp. 175-202.

[12] Controversies in the Determination of Death: A White Paper by the President’s Council on Bioethics, January 2009: http://www.bioethics.gov/reports/death/index.html (consultato in data 03/08/2009).

[13] Cfr. D.A. Shewmon, “Brain Death”, “Brain Stem Death” and Death: A Critical Re-Evaluation of the Purported Equivalence, in “Issues in Law & Medicine”, 14, 2, 1998, pp. 125-145 e Id., The Brain and Somatic Integration: Insights Into the Standard Biological Rationale for Equating “Brain Death” With Death, in “Journal of Medicine and Philosophy”, 26, 5, 2001, pp. 457-478.

 

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