LA “COSIDDETTA MORTE CEREBRALE” È SEMPRE PIÙ DUBBIA E “IN DUBIO PRO VITA”
La Pontificia Accademia per la Vita, in collaborazione con il Centro Nazionale Trapianti, ha organizzato a Roma, nell’Auditorium della Conciliazione, un congresso internazionale sui trapianti dal 6 all’8 novembre c.a. (International Congress – A Gift for Life - Considerations on Organ Donation).
Benché di recente il nostro periodico si sia interessato dell’argomento (agosto 2008 pp. 1 ss. Morte encefalica/Ne siamo certi?) riteniamo opportuno ritornarvi per l’occasione.

Temiamo, infatti, che non abbia quanto meno a ripetersi quell’«umano cedimento di cortesia» (come lo definì Tozzini) che, nel Congresso del 24 agosto 2000, indusse Giovanni Paolo II ad un pronunciamento che, sia pure a torto, poté essere interpretato dai “trapiantisti” come un’approvazione del criterio della “morte cerebrale” (v. sì sì no no cit.). Oggi, a distanza di otto anni, un dibattito medico-scientifico sempre più vivace, esteso e seriamente motivato va dimostrando che il paziente in stato di “morte cerebrale” non è un morto, ma un essere vivente, la cui morte sarà provocata dall’eventuale prelievo di organi vitali da trapiantare e questo dovrebbe bastare ad escludere qualsivoglia “cedimento”.

 
“Il dibattito medico- scientifico intorno alla morte cerebrale”
 
È il titolo del capitolo III, che riprendiamo integralmente, di “Morte cerebrale e trapianto di organi” (ed. Morcelliana), in cui il prof. Paolo Becchi, ben noto ai nostri lettori, illustra alcune posizioni in ambito medico-scientifico circa la cosiddetta “morte cerebrale”.

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1. Premessa
I criteri neurologici per accertare il decesso di un paziente sono entrati nell’uso della pratica medica occidentale da circa quarant’anni ed il consenso di cui godono sembra, apparentemente, tuttora molto soli-do. Nondimeno da oltre un decennio è in atto un notevole ripensamento nella comunità scientifica internazionale. Nel nostro paese vige invece (almeno su questo) un patto di ferro tra laici e cattolici che, nel tentativo di incrementare il più possibile le donazioni di organi, impedisce una seria discussione sulle condizioni in cui vengono effettuati gli espianti.
In questo capitolo illustrerò i principali risultati di ricerche ed osservazioni cliniche le quali, in contro tendenza alle voci più ascoltate, dimostrano che i pazienti che rispondono agli attuali criteri clinici della morte cerebrale non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali. Que-sto fatto è particolarmente significativo e denso di conseguenze se si pensa che, per dichiarare il decesso di un paziente con lesioni cerebrali corrispondenti al quadro clinico della morte cerebrale totale, la legisla-zione italiana ad esempio richiede esplicitamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali. In secondo luogo prenderò in considerazione una critica – che ritengo risolutiva – alla tesi che la morte cere-brale totale rappresenti comunque un indicatore ravvicinato della morte dell’organismo.

2. Morte cerebrale = perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali? Le tesi di Robert Truog e James Fackler
Rethinking Brian Death è il titolo significativo di un articolo pubblicato nel 1992 da due medici, Robert Truog e James Fackler, su una autorevole rivista medica . Sulla base di documentate ricerche i due autori dimostrano che pazienti, i quali rispondono agli attuali criteri clinici adoperati per accertare la morte cere-brale, non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali.
A sostegno della loro tesi i due medici portano quattro argomenti che vorrei qui riassumere. In primo luogo, in molti pazienti giudicati in stato di morte cerebrale non è venuta meno la funzione endocrino-ipotalamica, persiste cioè l’attività ormonale della ghiandola ipofisi e del centro nervoso (l’ipotalamo) che la controlla; in secondo luogo, in molti pazienti che si trovano in tale stato è possibile registrare tramite encefalogramma una sia pur debole attività elettrica localizzata in alcune zone della corteccia cerebrale, destinata a spegnersi solo dopo 24-48 ore; in terzo luogo, alcuni pazienti continuano insospettatamente a reagire agli stimoli esterni, come dimostra ad esempio l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna a seguito dell’incisione chirurgica prima del prelievo degli organi; in quarto luogo, in molti pazienti definiti cerebralmente morti sono conservati i riflessi spinali, di cui oggi non si tiene più conto, ma non così all’epoca in cui era stata formulata la nuova definizione di morte . Sulla base di una attenta analisi di questi quattro elementi, Truog e Fackler sono giunti a concludere che gli attuali mezzi clinici impiegati per accertare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo in realtà non sono in grado di farlo e segnalano in tal modo un’incoerenza tra definizione di morte e criteri per accertarla.
Si potrebbe pensare all’opinione isolata di due medici controcorrente, subito smentita dalla comunità scientifica, e invece no: quell’articolo per un verso confermava alcuni orientamenti già presenti in passato  e per l’altro ha trovato ampie conferme nella letteratura scientifica successiva. Ma se Truog e Fackler hanno ragione, allora se ne dovrebbe concludere che spesso quando  si prelevano gli organi il donatore è ancora vivo: dal momento che non sono ancora cessate tutte le funzioni dell’encefalo il paziente non dovrebbe essere considerato deceduto. Questo vale a maggior ragione per il nostro paese in cui la morte cerebrale totale è oggetto di una specifica disposizione normativa. Se la condizione necessaria per autorizza-re il prelievo di organi da cadavere  è data dalla cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo mi pare evidente che, se quella condizione non si verifica, neppure il prelievo dovrebbe essere considerato le-cito. Ma torniamo ai nostri due autori.
Poiché gli attuali mezzi clinici non sono in grado di accertare la cessazione di tutte le funzioni, ma sol-tanto di alcune e diagnosticano tutt’al più la morte corticale, Truog e Fackler sono giunti a prospettare l’adozione della nozione di morte corticale in sostituzione di quella di morte cerebrale totale. Questa pro-posta, decisamente discutibile sotto il profilo etico e giuridico, è densa di conseguenze e Truog deve avere intuito le difficoltà pratiche da essa generate: nel 1997 infatti ritorna sul problema dell'accertamento del decesso mediante criteri neurologici e, pur ammettendo l'importanza sotto il profilo filosofico dell'ipotesi dalla morte corticale come morte della persona, riconosce parimenti che tale ipotesi non potrà mai essere adottata . E ciò per diverse ragioni: sotto il profilo medico sembra esistere ancora un margine di incertezza sull’ attendibilità della diagnosi dello stato vegetativo permanente; sotto il profilo sociale «pensare di seppellire o cremare un individuo che respira, anche se in stato di incoscienza, sarebbe inconcepibile per molte persone, creerebbe una significativa barriera all’accettazione di questa visione nella politica sociale» . Truog spiega così le ragioni del rifiuto:
«Forse le più grandi obiezioni alla formulazione corticale emergono dalle implicazioni di trattare dei pazienti che respirano come se essi fossero morti. Per esempio, se dei pazienti in stato vegetativo permanente fossero considerati morti, allora sarebbero logicamente ritenuti pronti per l’inumazione. Tuttavia tutti questi pazienti respirano, e alcuni di essi “vivono” per molti anni» .
Truog ipotizza la soluzione «di praticare una “iniezione letale” prima dell’inumazione o della cremazione per terminare le funzioni cardiache e respiratorie», per un motivo “puramente estetico” e come «estensione dei nostri protocolli correnti, per i quali le funzioni vitali dei pazienti diagnosticati come cerebralmente morti vengono terminate prima dell’inumazione, o fermando la ventilazione meccanica o rimuovendo i loro cuori e/o polmoni durante il prelievo degli organi». Ma il medico statunitense conclude:
«Sebbene questa linea argomentativa abbia una certa persuasività logica, ciò nonostante essa evita di considerare il fatto essenziale che la maggioranza delle persone trova assurdo pensare “morto” un paziente che respira» .
Se dunque per un verso la soluzione della morte corticale non è praticabile e per l’altro quella della morte cerebrale è incoerente, non resta che ritornare al tradizionale approccio della determinazione della morte .
Il ritorno allo “standard cardiorespiratorio”, secondo Truog, eliminerebbe tutte le difficoltà esistenti circa la coerenza tra definizione di morte, criteri e test per accertarla e, al tempo stesso, avrebbe l’indubbio vantaggio di rappresentare «“un denominatore comune” nella definizione della morte che virtualmente tutti i gruppi culturali e le tradizioni religiose troverebbero accettabile» . Insomma, ciò che alla fine Truog esplicitamente propone è «di abbandonare del tutto il concetto di morte cerebrale».
Questo, si badi, non è un mero ritorno al passato, ma un tentativo di scindere il problema della donazione degli organi da quello della determinazione di morte. Lo scopo delle più recenti ricerche di Truog è infatti quello di trovare una diversa giustificazione etica per la donazione degli organi centrata sui principi di non maleficenza (non-maleficence) e del consenso .

 

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