ESISTE UNA “CHIESA CONCILIARE” SOSTANZIALMENTE DIVERSA DALLA “CHIESA CATTOLICA”?

Un’analogia

Oggettivamente i 16 Decreti del Concilio Vaticano II sono in rottura con la Tradizione apostolica e con il Magistero costante e dogmaticamente infallibile della Chiesa[1], ma – in tale constatazione di “rottura oggettiva con la Tradizione apostolica”[2] – si deve distinguere la responsabilità di chi lo ha accolto in buona fede pensando di obbedire all’Autorità da quella di chi lo ha indetto, elaborato e promulgato. Così pure occorre distinguere, quando si constata la nocività oggettiva del Novus Ordo Missae, la responsabilità di chi lo ha composto, promulgato ed imposto da quella di chi lo subisce.

 

Le carenze della nuova Messa di Paolo VI furono subito messe in luce nel “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” con la “Lettera di presentazione” dei cardinali Antonio Bacci e Alfredo Ottaviani, ove si trovano considerazioni severe sulla non piena ortodossia oggettiva del nuovo rito (“si allontana impressionantemente dalla dottrina cattolica sul Sacrificio della Messa qual è stata definita dal Concilio di Trento”) e si chiede al Papa di abrogarlo quale “legge nociva”[3].

Vi è una certa analogia tra la condanna a morte di Gesù promulgata dal Sinedrio e dal Sommo sacerdote dell’Antico Testamento e subìta dai fedeli del Vecchio Patto  e la promulgazione del Vaticano II e del Novus Ordo Missae da parte del Papa e l’accettazione subìta da parte dei fedeli della Nuova Alleanza. San Tommaso d’Aquino (S. Th., III, q. 47, a. 5, 6; Id.,  II-II, q. 2, a. 7, 8)  insegna: i capi sapevano chiaramente  che Gesù era il Messia e volevano ignorare o non ammettere che era Dio (ignoranza affettata che aggrava la colpevolezza). Il popolo che nella maggior parte ha seguìto i capi (mentre solo un “piccolo resto” ha seguìto Cristo) ha avuto un’ignoranza non voluta, ma vincibile, quindi una colpa meno grave dei capi, anche se oggettivamente grave (soggettivamente, ossia nel cuore d’ogni singolo uomo, solo Dio vi entra). Il popolo, che aveva visto i miracoli di Cristo, ha avuto l’attenuante di aver seguìto il Sommo Sacerdote, il Sinedrio, i capi; il suo peccato è stato grave in sé, anche se diminuito in parte, non cancellato totalmente, da ignoranza vincibile (S. Th., ut supra).

È un fatto, e “contro il fatto non vale l’argomento”, che il Concilio Vaticano II ha avuto luogo realmente e oggettivamente (chi lo negasse  vivrebbe in uno stato di scissione dalla realtà) ed è stato convocato e promulgato dal Papa e vi ha partecipato tutto l’Episcopato, che lo ha riconosciuto come Concilio della Chiesa (anche se solo “pastorale”), compresi mons. Marcel Lefebvre e mons. Antonio de Castro Mayer. Il Vaticano II non è stato un brutto sogno, ma purtroppo una triste realtà. Ora la realtà va presa sempre in considerazione anche se spiacevole. Non si può fare come lo “struzzo” (fisico/teologico), che, per non vedere il pericolo reale che lo assale (leone/Vaticano II), nasconde la testa dentro la sabbia e fa finta di non vederlo.

Secondo Aristotele e S. Tommaso d’Aquino, la verità è la “conformità dell’intelletto alla realtà” (bella o brutta che sia) e la “difformità del pensiero dal reale” è l’errore. Perciò quelli che  subiscono il Concilio Vaticano II così come il popolo d’ Israele subì la condanna a morte di Gesù decretata dai Sommi Sacerdoti dell’Antico Testamento (cfr. S. Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 47, a. 5, 6; Id.,  II-II, q. 2, a. 7, 8) non possono essere equiparati a coloro che sono stati messi fuori della Chiesa da chi ne ha il potere perché nessuno avente autorità (Papa e Vescovi) li ha condannati e separati da Essa, né possiamo farlo noi, che siamo privi di autorità ecclesiastica, la quale viene da Dio tramite il Papa. Così non si deve neppure dimenticare che la Nuova Messa (detta di Paolo VI), pur allontanandosi “in maniera impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della Messa” (A. Ottaviani – A. Bacci), è stata composta da papa Paolo VI e non da Lutero, che uscì dalla Chiesa ufficialmente. Quindi i sacerdoti e i fedeli, che son costretti dalle circostanze storiche a subire un Rito ambivalente (protestante e cattolico), sono membri della Chiesa cattolica non essendo stati dichiarati, autorevolmente e giuridicamente, scismatici o eretici. Né si può applicare loro, senza fare le dovute distinzioni, il principio della nocività oggettiva del Rito nuovo, la quale formalmente è imputabile a chi lo ha redatto e imposto con un abuso di autorità e non a chi lo subisce.

Chi li dichiara con una “sua” sentenza “giuridica” fuori della Chiesa si comporta come un privato cittadino che vede un delinquente uccidere un’anziana e improvvisandosi carabiniere lo arresta, poi auto-nominandosi giudice lo condanna all’ergastolo e quindi scambiandosi per una guardia carceraria lo rinchiude in casa sua a vita. È evidente a qualsiasi persona provvista di sana ragione che questo privato cittadino andrebbe rinchiuso poiché socialmente pericoloso.

Non mi sembra, quindi, teologicamente lecito asserire (“Con quale autorità?”, H. Benson) che tutti coloro che assistono al nuovo Rito commettono formalmente un peccato mortale contro la Fede come lo commettono coloro che partecipano in sacris ad un culto ufficialmente acattolico e che dopo sei mesi di partecipazione continua sono sospetti di eresia e se non si correggono vengono dichiarati eretici da chi ha autorità nella Chiesa per mandato divino (Papa e Vescovi con giurisdizione).

 

Una distinzione importante: la Chiesa “soggetto insegnante” e la Dottrina della Chiesa “oggetto insegnato”

La dis-continuità tra Tradizione apostolica e Concilio Vaticano II significa la non-conformità tra  la dottrina (oggetto) insegnata dalla Chiesa nei primi venti Concili Ecumenici-dogmatici  e quella del Concilio Vaticano II pastorale[4]. Invece nel soggetto che la insegna, ossia la Chiesa, vi è una continuità sostanziale: la Chiesa che ha insegnato dogmaticamente e infallibilmente prima del Vaticano II è 1°) quanto alla sostanza, lo stesso soggetto “Chiesa”, che è stata fondata da Cristo su Pietro e i suoi successori: i Papi, e non sui soli Santi, come volevano i protestanti; 2°) quanto al modo o accidentalmente, ha parlato “pastoralmente”, non dogmaticamente e quindi non infallibilmente[5] durante il Vaticano II per cui ha potuto discostarsi dall’oggetto insegnato dalla Chiesa costantemente e spesso anche in maniera infallibile. Il fatto che l’oggetto dell’ insegnamento, ossia la dottrina ante-Vaticano II e quella del Vaticano II discordano in molti punti non pone problemi all’ indefettibilità del soggetto Chiesa (Papi e Vescovi come successori di Pietro e degli Apostoli), poiché l’ insegnamento “pastorale” del Vaticano II non è infallibile, avendo esso rinunciato a voler definire ed obbligare a credere[6]. Vi è, dunque, sostanzialmente un solo e identico soggetto (Chiesa), che insegna in maniera diversa quanto al modo: con Magistero dogmatico infallibile sino a Pio XII e con Magistero pastorale non infallibile a partire da Giovanni XXIII (tranne il caso del sacerdozio non ammissibile per le donne, definito e imposto come obbligatorio da credersi, e quindi infallibilmente, da Giovanni Paolo II nel 1986).

Se si nega che il soggetto Chiesa è lo stesso prima e dopo il Concilio, implicitamente e almeno praticamente, si nega l’articolo di Fede “Credo unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam” poiché il soggetto Chiesa, che Cristo ha fondato su Pietro e i suoi successori (i Papi), dovrà durare ininterrottamente sino alla fine del mondo sostanzialmente inalterata nella sua struttura (la causa: Dio; il fine: il Cielo; i mezzi per giungere al fine: la grazia santificante tramite i Sacramenti). Se la Chiesa petrina fosse finita col Vaticano II (1965) le “porte degli Inferi” avrebbero vinto, sconfessando la promessa di Gesù: “Io sarò con voi tutti i giorni [compresi quelli che vanno dal 1962 al 1965] sino alla fine del mondo”. Invece il fatto che la dottrina o l’oggetto dell’ insegnamento della Chiesa differisce, poiché nel Vaticano II non si è voluto definire ed obbligare a credere e quindi si è esclusa, scientemente e volutamente,  l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, non intacca l’apostolicità e l’ indefettibilità del soggetto Chiesa, che, nonostante il Vaticano II, continuerà sostanzialmente inalterata nella sua divina costituzione (Papi e Vescovi) da Pietro sino all’ultimo Papa e all’ Episcopato vivente alla fine del mondo.

 

Chiesa cattolica “Chiesa conciliare” e contro-chiesa

Si può parlare in senso largo dunque, ma non strettamente teologico di soggettoChiesa conciliare” (come hanno fatto i cardinali Benelli, Koch e Giovanni Paolo II) in opposizione al soggetto Chiesa cattolica romana tradizionale perché l’oggetto o l’insegnamento pastorale (Concilio Vaticano II) o  neppure pastorale, ma puramente “esortativo” (cfr. Francesco I, Esortazione  apostolica Amoris laetitia, 19 marzo 2016), sono in contraddizione con l’oggetto dell’ insegnamento dogmatico e costante del soggetto Chiesa cattolica da S. Pietro a Pio XII.

In questo senso lato o non strettamente teologico si può parlare anche di uomini di una “contro-chiesa”, che cercano di erodere modernisticamente la Chiesa cattolica dal di dentro (cfr. San Pio X, Enciclica Pascendi, 8 settembre 1907). Questo è il vecchio piano che la “Sinagoga di satana” (Apoc., II, 9) ha sempre avuto in mente sin dalla fondazione della Chiesa di Cristo  a partire dall’ Apostolo Giuda, del quale “Gesù disse: non fui Io ad eleggere voi Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo” (Gv., VI, 70). Ma, nonostante tutti gli sforzi dell’inferno e dei suoi accoliti (da Giuda ai modernisti), “le porte dell’Inferno non prevarranno contro di Essa”. La fede ci assicura che anche quest’ultimo tentativo di distruggere la Chiesa di Cristo (iniziato col Vaticano II) è destinato a fallire come tutti gli altri che lo hanno preceduto e come la grande persecuzione dell’Anticristo finale, che concluderà la storia dell’umanità e della Chiesa con la vittoria definitiva di Cristo[7]. “Dio salvi la Chiesa dalle colpe degli uomini di Chiesa!” (don Francesco Putti). Occorre sempre fare questa distinzione basilare tra Chiesa ed uomini di Chiesa.

 

I princìpi da tener fermi di fronte all’«ermeneutica della continuità»

Occorre ben distinguere i termini suddetti quando si parla di “ermeneutica della continuità” sia per non negare il fatto oggettivo della discontinuità di dottrina ante e post Vaticano II[8], sia per non negare il dogma della perenne continuità del soggetto Chiesa e la sua apostolicità (che è una delle quattro Note della vera Chiesa), ossia la serie di Papi e Vescovi, che da Pietro e dagli Apostoli si sono susseguiti e si susseguiranno sino alla Parusia come una catena mai interrotta di anelli  (la pura successione materiale senza comunione con il successore di Pietro, come quella degli scismatici detti “Ortodossi”, non basta ad assicurare l’Apostolicità).

Occorre fare molta attenzione a non confondere la continuità del soggetto Chiesa con la continuità dell’oggetto ovvero della dottrina insegnata dalla Chiesa, la quale, quando non è insegnata dal Magistero infallibile, può essere per definizione fallibile e, quindi, eccezionalmente in rottura con la Tradizione apostolica[9]così come la dottrina del Vaticano II lo è in più punti con quella della Tradizione apostolica e del Magistero tradizionale e dogmatico (quindi infallibile) della Chiesa[10].

Certamente la Chiesa è ‘soggetto insegnante’, tuttavia gli uomini di Chiesa (a pedibus usque ad Capitem) non devono appropriarsi della Rivelazione divina, contenuta nella Tradizione apostolica e nella S. Scrittura per interpretarla soggettivisticamente come a loro sembra o piace, ma devono custodirla, mantenerla invariata sostanzialmente o oggettivamente (pur approfondendola sempre meglio) e poi trasmetterla spiegandone il significato genuino omogeneamente, cioè senza contraddizioni (Conc. Vat. I, Pastor aeternus, cap. IV).

L’interpretazione della Rivelazione è condizionata dalla sua conservazione e ordinata alla sua trasmissione. Infatti “il governo della Chiesa è monarchico, ma, per quanto assoluta, la volontà del monarca è limitata dal diritto divino naturale o positivo. […]. Il potere di giurisdizione del Papa non conosce sulla terra altri limiti  che quelli ad esso assegnati dal diritto divino e dalla costituzione divina della Chiesa” (F. Roberti-P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, vol. II, p. 1253 e 1255, voce Pontefice, Sommo ). Ora Francesco I ha oltrepassato (soprattutto in re morali) oggettivamente i limiti impostigli dal diritto divino e dalla divina costituzione della Chiesa e quindi è non solo lecito, ma doveroso metterlo davanti alle sue responsabilità e invitarlo a ritrattare i suoi errori. Tuttavia non si può pretendere di arrivare alla deposizione dopo la constatazione dei suoi errori notori. 

Il guaio è che con il Concilio Vaticano II sono stati legittimati “pastoralmente” alcuni cambiamenti di dottrina con la scusa che la continuità del soggetto Chiesa, che dovrebbe far passar in second’ordine il cambiamento dell’oggetto o della dottrina insegnata (collegialità episcopale, pan-ecumenismo, diritto di libertà delle false religiosi, rapporti Chiesa/giudaismo postbiblico, unicità della Scrittura come fonte di Rivelazione escludendo la Tradizione, panteismo antropologico…)[11]. Questo è l’escamotage di cui si servono i neo-modernisti per accreditare “l’ermeneutica della continuità” della dottrina insegnata prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II.

L’anomalia del Vaticano II

Il Magistero Conciliare (Vaticano II compreso) è di per sé solenne o straordinario e universale, trattandosi di tutti (moralmente e non matematicamente) i Vescovi  (2500 nel Vaticano II) riuniti in Concilio sotto il Papa in maniera non abituale, ma eccezionale: «Quanto al Vaticano II, sarebbe assurdo negargli il carattere di Magistero Conciliare, quindi Solenne, non Ordinario, perché in tal caso si negherebbe il [fatto o l’ esistenza del] Concilio stesso. […]. Se una cosa è, non può non essere»[1]. È un fatto che il Papa ha convocato tutti i Vescovi del mondo nel Concilio Vaticano II, il quale  è esistito (chi può negarlo? solo una persona dissociata dalla realtà), si è svolto e si è concluso sotto la direzione del Papa e non è stato impugnato da nessun Vescovo residenziale o avente giurisdizione (neppure da mons. Marcel Lefebvre e da mons. Antonio de Castro Mayer) né da nessun Cardinale. Quindi canonicamente è un Concilio Ecumenico legittimamente convocato e promulgato. Ma ecco l’anomalia: questo XXI Concilio ecumenico lo si è voluto, per la prima volta nella storia della Chiesa (dopo venti Concili ecumenici), esclusivamente “pastorale” ossia si è voluto che si limitasse ad applicare ai casi pratici la dottrina della Chiesa senza definire né obbligare a credere nessuna verità di Fede o di Morale. Quindi il XXI Concilio ecumenico Vaticano II è, sì, Magistero Solenne Universale o Conciliare, ma è Magistero non dogmatico e non infallibile, tranne nei punti ove ha riproposto la dottrina costantemente e universalmente professata da tutta la Chiesa (“quod semper, ubique et ab omnibus creditum est”) o quando ha ripreso dogmi già definiti.In breve la legittimità del Vaticano II come Concilio Ecumenico (quanto a convocazione, esistenza e promulgazione) è distinta dall’ortodossia della sua dottrina, così come la validità e legittimità dell’elezione canonica di Paolo VI-Francesco I (soggetto Papa esistente in atto) non si identifica con la loro ortodossia dottrinale (oggetto da loro insegnato).

Mons. Gherardini scrive che il Vaticano II è realmente Magistero Conciliare e perciò Solenne, ma non è infallibile in quanto non ha voluto essere dogmatico: «ha [giuridicamente] le carte in regola che lo fanno un autentico Concilio ed esigono che sia come tale riconosciuto. […]. L’autenticità conciliare gli deriva dalla canonicità della sua convocazione, della sua celebrazione e della sua promulgazione. […]. La qualcosa non depone di per sé per la dogmaticità dei suoi asserti […], trattandosi di un Concilio che, fin dalla sua convocazione […], escluse formalmente dal proprio orizzonte l’intento definitorio»[12]. Il fatto che il Concilio Vaticano II quanto al modo di insegnare sia Magistero solenne o straordinario non significa che ipso facto sia dogmatico quanto alla dottrina insegnata o che abbia voluto definire e obbligare a credere, godendo, dell’ assistenza infallibile di Dio. È un fatto che il Vaticano II è stato un Concilio Ecumenico convocato e promulgato da un Papa, ma altresì è un fatto che è stato solo pastorale e quindi il passaggio dal fatto dell’esistenza di un Concilio pastorale alla sua infallibilità e obbligatorietà dottrinale non è valido, non avendo esso voluto definire ed obbligare a creder ciò che ha insegnato pastoralmente.

 

Sedevacantismo e Sede vacante

Asserire che il Concilio Ecumenico Vaticano II non è Magistero significa negare implicitamente che Giovanni XXIII, Paolo VI e i Vescovi del mondo intero (compresi mons. Antonio de Castro Mayer e mons. Marcel Lefebvre) riuniti in Concilio cum Petro et sub Petro, più i Papi e i Vescovi post-conciliari, siano Papi e Vescovi; in breve significa decretare la fine della Chiesa, la quale per istituzione divina deve avere un Papa e l’Episcopato sino alla fine del mondo, ma ciò significa negare le promesse fatte da Cristo alla sua Chiesa. Questo è “sedevacantismo” e non lo stato di “Sede vacante”[13], in cui “il Collegio cardinalizio [dopo la morte di un Papa e in attesa dell’elezione del nuovo] governa la Chiesa collegialmente nei suoi affari ordinari” (F. Roberti- P. Palazzini, Dizionario di Teologia morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, vol. II, p. 1256, voce Pontefice, sommo), sotto la presidenza onoraria e non  giurisdizionale del Cardinale Camerlengo, che è un “primus inter pares”.

 

La “prova del nove” dell’ infallibilità

Il Concilio (e quindi anche il Vaticano II) è Magistero straordinarioquanto al modo”, nel senso che il Concilio non è abitualmente o permanentemente riunito, ma è radunato straordinariamente o solennemente ed eccezionalmente; tuttavia “quanto alla sostanza” il suo insegnamento è infallibile soltanto se definisce una verità di Fede come da credersi obbligatoriamente. Quindi il Magistero sia ordinario che straordinario è infallibile solo se ha questa ‘volontà di definire e obbligare a credere’.

Il teologo tedesco Albert Lang spiega bene che «non riveste neppure importanza essenziale il fatto che i Vescovi esercitino il loro magistero ‘in modo ordinario e universale’ [cioè sparsi nel mondo ciascuno nella propria Diocesi], oppure esercitino il loro magistero ‘in modo solenne’ [straordinario] […] in un Concilio ecumenico convocato dal Papa. In entrambi i casi sono infallibili solo se, in accordo tra di loro e con il Papa (prima condizione), annunziano una dottrina in modo definitivo e obbligatorio (seconda condizione)» (Compendio di Apologetica, tr. it. Torino, Marietti, 1960, p. 461). In breve, per esercitare l’infallibilità, è essenziale obbligare i fedeli a credere come divinamente rivelato ciò che si definisce sia in ‘maniera ordinaria’ sia in ‘maniera solenne o straordinaria’ (il modo è elemento accidentale dell’ infallibilità). La forma esterna solenne o straordinaria ‘quanto al modo’ di pronunciarsi non è per sé indice di infallibilità; l’essenziale è imporre ‘quanto alla sostanza’, in ‘maniera ordinaria o straordinaria’, la dottrina annunziata definitivamente e obbligatoriamente per la salvezza. Onde non tutto ciò che è Magistero Straordinario, quanto alla forma esterna ‘non comune’ o ‘non ordinaria’ di pronunciarsi con formule solenni, è infallibile.

Conclusione

La gravità della situazione attuale è tale che umanamente non è risolvibile poiché nessun essere umano può condannare giuridicamente e deporre il Papa. Tuttavia la Chiesa è soprannaturale quanto all’ origine, al fine e ai mezzi (tranne i membri umani che la compongono) e quindi occorre mantenere viva la Fede nella divinità della Chiesa e nel suo trionfo a ligno (come Gesù, di cui la Chiesa è la continuazione nella storia sino alla fine del mondo). Si comprende che di fronte allo scandalo pubblico dato dai Papi “conciliari” i cattolici si sentano scossi, indignati e anche smarriti, ma non bisogna sorpassare il limite consentito dalla sana teologia e dal buon senso: In certis  unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas[14]. Tuttavia, data la situazione estremamente grave e confusa in cui ci troviamo (“hanno colpito il pastore e il gregge si è disperso”), occorre avere anche molta comprensione verso coloro che – in buona fede – per difendere la Fede cattolica dall’ aggressione modernista “peccano” o per eccesso (sedevacantismo[15]) o per difetto (obbedienza indebita).

 

Se il mondo non avesse qualcosa da dire contro di noi, non saremmo veri servi di Dio.

San Francesco di Sales

             

“Senza fede è impossibile piacere a Dio” (SAN PAOLO), ma “la Fede senza le opere buone è morta” (San Giacomo). Cerchiamo di mantenere la Fede che la Chiesa ha insegnato dogmaticamente o in maniera costante quanto al tempo (quod semper) ed universale quanto allo spazio (quod ubique) e quanto ai membri principali e secondari (et ab omnibus), senza dimenticare che la Fede deve essere vivificata dalla Carità soprannaturale, la quale non è sentimentalismo affettato e verbale, ma è l’osservanza effettiva del Decalogo.

Robertus

 

[1]Monsignor Mario Oliveri, ex Vescovo titolare della Diocesi di Albenga, ha scritto su Studi Cattolici del giugno 2009 un articolo su “La riscoperta di Romano Amerio” in cui afferma che non è solo lo spirito o l’interpretazione data da alcuni teologi super-progressisti del Concilio a contenere equivoci, ma è la lettera stessa del Concilio ad essere oggettivamente in contraddizione con i Concili dogmatici della Chiesa.

[2] Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Id., Tradidi quod et accepi. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010; Id., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011; Id., Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Torino, Lindau, 2011.

L’Autore in questi libri sostiene che la “continuità” tra la Tradizione apostolica e la teologia pastorale del Concilio Vaticano II è “affermata, ma non provata”. Innanzitutto le parole non sono la realtà ed inoltre non corrispondono ad essa. Vi è quindi un divario tra il detto e il fatto. Ora la definizione di verità è “conformità del pensiero alla realtà”, mentre l’errore è definito “non conformità del pensiero e delle parole che lo esprimono ai fatti”. Quindi la teoria dell’ ermeneutica della continuità – oggettivamente – è un errore o una falsità.

[3]Cfr. A. X. Da Silveira, La nouvelle Messe de Paul VI. Qu’en penser?, Chiré-en-Montreuil, DPF, 1975.

[4] La “teologia pastorale” consiste nell’ applicare i princìpi dogmatici ai casi concreti (card. A. Ottaviani). Il Concilio Vaticano II non ha voluto definire e condannare infallibilmente nessuna dottrina rivelata, né obbligare a credere alcunché. Ha soltanto cercato di applicare i princìpi immutabili della Chiesa alle vicissitudini della modernità avendo accettato esplicitamente il linguaggio (ed implicitamente il pensiero) soggettivista che è proprio della modernità. Quindi l’ applicazione del dogma al caso concreto si è rivelata falsata dal linguaggio e dal pensiero della filosofia moderna, che va da Cartesio (†1650) a Hegel (†1831). I frutti della ‘pastorale prudenziale’ del Vaticano II sono stati inquinati da quello che il gesuita padre Guido Mattiussi chiamava “Il veleno kantiano” (Monza, 1907) per cui essi risultano viziati dal soggettivismo, che relativizza ogni verità, principio e dogma. La prudenza, che deve presiedere all’applicazione retta del principio dottrinale al caso concreto e pratico alla luce della sana dottrina e del buon senso pratico, è mancata totalmente nell’ insegnamento del Vaticano II, in voto “pastorale”, ma ‘a-pastorale’ de facto sia per difetto di sana dottrina, sia per mancanza di buon senso, il quale vuole che nel decidere praticamente il da farsi ci si abbeveri alla Saggezza filosofica e teologica perenne, al Magistero tradizionale, alla Tradizione apostolica e non alle fonti inquinate della filosofia moderna. Per esempio, il fatto di non aver voluto metter in guardia i fedeli dai pericoli che allora minacciavano il mondo e la Chiesa (il Comunismo sovietico) può essere qualificato, come minimo, una totale mancanza di buon senso, di prudenza, di sano insegnamento e di pratica pastorale.

[5] Cfr. Giovanni XXIII, Allocuzione nella solenne inaugurazione del Concilio, 11 ottobre 1962; Paolo VI, Omelia durante la IX Sessione del Concilio, 7 dicembre 1965, ripetuta il 16 gennaio 1966.

7 «Il Concilio Vaticano II si è imposto di non definire nessun dogma, ma ha scelto deliberatamente di restare ad un livello modesto, come semplice Concilio puramente pastorale» (card. J. Ratzinger, Discorso alla Conferenza Episcopale Cilena, Santiago del Cile, 13 luglio 1988, in “Il Sabato”, n. 31, 30 luglio-5 agosto 1988).

[7]Cfr. A. Lémann, L’Anticristo, Proceno di Viterbo, EFFEDIEFFE, II ed., 2013; H. Delassus, Il Problema dell’ora presente, Proceno, idem, 2 voll. ; II ed., 2014-2015; M. Pinay, Complotto contro la Chiesa, Proceno, idem, II ed., 2015.

[8]Per interpretare correttamente la teologia del Concilio Vaticano II occorre, dunque, ritornare alla distinzione classica e scolastica tra il soggetto Chiesa, che insegna, e l’oggetto o la verità insegnata, la quale, se il Magistero non vuole definire e obbligare a credere, può contenere eccezionalmente l’errore ed essere in rottura con la Tradizione (“quod ubique, ab omnibus et semper creditum est”), non dimenticando che l’ universalità del Magistero non riguarda solo l’ab omnibus ossia il Corpo insegnante (tutti i Vescovi più il Papa), ma anche il semper, ossia la continuità nel tempo dell’insegnamento che proprio perché costante non può essere erroneo (cfr. Pio IX, Tuas libenter, 1863).

[9]Cfr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira,  Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, “Cristianità”, n. 9, 1975; Id., È lecita la resistenza a decisioni dell’Autorità ecclesiastica?, “Cristianità”, n. 10, 1975; Id., Può esservi l’errore nei documenti del Magistero ecclesiastico?, “Cristianità”, n. 13, 1975.

[10] Il fatto (quia) certo è quello sopra esposto (discontinuità di dottrina ante e post Vaticano II), mentre i princìpi da tenere fermi sono: a) la indefettibilità e la perennità dell’Unica Chiesa fondata su Pietro e i Papi b) che l’infallibilità viene impegnata solo quando il Magistero vuol definire una verità come rivelata ed obbligare a crederla per andare il paradiso o sotto pena di dannazione. Il come e il perché (propter quid) sia stato possibile l’attuale disastro o ‘catastrofe’ spirituale nella Chiesa è un mistero che soltanto Dio conosce. Noi dobbiamo continuare a credere e a sperare che da ogni male permesso Dio trae un bene maggiore. Anche il Poeta ci invita a non voler conoscere le imperscrutabili vie di Dio e le loro cause (propter quid). Quindi dobbiamo contentarci di sapere il fatto (quia) senza presumere di conoscere il perché  di ogni cosa:“Matto è chi spera che nostra ragione/possa trascorre la infinita via/che tiene una Sustanza in tre Persone./ State contenti, umana gente, al quia /ché, se potuto aveste veder  tutto,/mestier non era parturir Maria” (Dante, Purgatorio, III, 36-37). Se potessimo conoscer ogni cosa (quia et propter quid) avremmo ancora la scienza infusa persa da Adamo e non sarebbe stata necessaria la Redenzione. Cfr. anche S. Tommaso d’Aquino, S. c. Gent., I, 3.

[11] Cfr. “Divinitas”, n. 2/2011, p. 188 ss.

[12]Cfr. “Divinitas”, n. 2/2011, p. 188 ss.

[13]La differenza tra i periodi di ‘sede vacante’, o interregno tra un Papa e l’altro, e il “sedevacantismo”, che afferma la mancanza (totale o solo formale/attuale) di un Papa e di un Corpo di Vescovi aventi giurisdizione e ritiene i Cardinali capaci solo di partecipare alle elezioni, ma impossibilitati a governare poiché privi di autorità, è abissale. Infatti nel primo caso i Cardinali mantengono in vita la Chiesa poiché fungono collegialmente pro tempore, in attesa del nuovo Papa, da autorità o principio di vita della medesima (sono ‘vicari’ vivi del ‘Vicario’ morto, governando collegialmente la Chiesa nei suoi problemi ordinari). Nel secondo caso, invece, si afferma che l’autorità è scomparsa nel Papa, nei Vescovi e nei Cardinali, onde la Società spirituale Chiesa gerarchica romana sarebbe senza principio formale di vita (=autorità) e quindi sarebbe totalmente morta. Ma ciò è contro la Fede. Francesco I governa de facto, ha il titolo di Papa de jure, anche se l’esercizio di tale titolo è deficiente: governa malamente, ma è Papa; quod non repugnat.

[14] Papa Vittore I, santo (189-199) in un primo momento volle imporre così la sua autorità con la data della Pasqua. Infatti Roma e la Chiesa latina la festeggiavano la domenica che seguiva il 14° giorno del mese di Nissàn. Invece la chiesa dell’Asia minore la celebrava il 14 di Nissàn, anche se non era domenica. Vittore le chiese di uniformarsi a Roma, ma la Comunità asiatica si irrigidì e il Papa  decise di scomunicare tutta la suddetta Comunità e il suo Vescovo Policrate. Tuttavia molti Vescovi latini manifestarono al Papa le loro perplessità sul suo provvedimento, che avrebbe provocato uno scisma; decisivo fu l’intervento di Sant’Ireneo, Vescovo di Lione (130-202), che convinse il Papa a scendere a più miti consigli, onde Vittore non dette corso al suo proposito di scomunica. Come si vede, in una questione molto importante (la Chiesa d’Oriente e quella di Occidente celebrano tuttora la Pasqua in due date diverse) un Papa (per di più santo) lasciò ai cattolici orientali la possibilità di celebrare la Pasqua anche non di domenica (giorno in cui è risorto Gesù), senza condannarli e scomunicarli. Purtroppo qualcuno, che si prende per il “Padreterno”, scomunica e condanna “a destra e a manca” chi non ha le sue stesse opinioni. Etienne Gilson diceva che “Un’opinione teologica e una scuola teologica non possono pretendere di imporsi come verità di Fede, ‘scomunicando’ le altre opinioni e le altre scuole teologiche”.

[15]Occorre distinguer un sedevacantismo delle anime semplici, che di fronte alle novità, errori e eresie materiali di Francesco I si chiedono spontaneamente: “come può essere costui il vero Vicario di Cristo?”. Li capisco, anche se non condivido, ma consiglio loro di evitare di fare di un interrogativo spinoso, con un certo fondamento nella realtà, una tesi che pretende di essere la specificazione di un atto di Fede, per cui chi se ne discosta non ha la Fede cattolica e tutti coloro che non la seguono sono in stato di eresia e scisma capitale, i loro sacramenti (confessione e matrimonio) sono invalidi, e la loro messa, poiché citano nel Canone il nome del Papa attuale, è gravemente peccaminosa (sedevacantismo teologicamente e giuridicamente” auto-strutturato). Questa tendenza è assai pericolosa, poiché corre il rischio di scivolare verso una forma di settarismo ponendo, in pratica, la propria conventicola al posto della Chiesa di Cristo, senza essere stati inviati da Cristo tramite il Papa.