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IL CELIBATO ECCLESIATICO

Un infelice risposta di papa Bergoglio a un giornalista ha lasciato intendere che la legge sul celibato ecclesiastico potrebbe essere oggetto di revisione, se non di abolizione. Ora il cardinal Alfonso Maria Stickler nel 1994 pubblicò in italiano un libro interessantissimo intitolato Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana).

In questo articolo lo riassumeremo affinché possano i nostri associati avere un’idea chiara sulla natura del celibato ecclesiastico, sulla sua istituzione e sulla differenza tra la Chiesa latina e quella orientale riguardo a questo problema.

Origine del celibato

Per quanto riguarda il celibato ecclesiastico, alcuni autori lo presentano di origine divina; altri come  una mera istituzione ecclesiastica disciplinare della Chiesa latina più stretta riguardo alla Chiesa cattolica orientale.

Dal celibato ecclesiastico nasce un duplice obbligo: 1°) di non sposarsi e 2°) di non usare più di un eventuale matrimonio precedentemente contratto. Infatti ci risulta dalla Sacra Scrittura che nella Chiesa primitiva l'ordinazione di uomini sposati era una cosa frequente dato che San Paolo prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che tali candidati dovevano essere stati sposati solo una volta. Di san Pietro almeno sappiamo di certo che era sposato.

Quindi appare chiaro che allora nella continenza da ogni uso del matrimonio dopo l'ordinazione consisteva il senso primario del celibato, senso che oggi è quasi comunemente dimenticato, ma che in tutto il primo millennio, e anche oltre, era noto a tutti.

Tutte le prime leggi scritte sul celibato parlano, infatti, della proibizione di una ulteriore generazione di figli nel matrimonio già contratto. Ciò dimostra che, a causa della moltitudine di chierici sposati antecedentemente, questo obbligo doveva essere richiesto con decisione e che il divieto di sposarsi era all'inizio piuttosto di importanza secondaria ed emerse solamente quando la Chiesa preferì, e poi impose, i celibi, da cui venivano reclutati quasi o del tutto esclusivamente i candidati agli Ordini sacri.

Per completare questo primitivo senso del celibato ecclesiastico, il quale veniva giustamente chiamato “continenza”, dobbiamo avvertire subito che i candidati sposati potevano accedere agli ordini sacri e rinunciare all'uso del matrimonio solamente col consenso della moglie.

 

Una tesi perdurante, ma infondata

L’orientalista Gustav Bickell assegnava l’origine del celibato ad una disposizione apostolica, appellandosi soprattutto a testimonianze orientali. A lui rispose Franz X. Funk, noto cultore della storia ecclesiastica antica, dicendo che ciò non si poteva affermare poiché la prima legge scritta sul celibato possiamo trovarla solo all'inizio del IV secolo dopo Cristo. Successivamente ad un duello di scritti in materia, il Bickell tacque mentre il Funk ripeté ancora una volta sinteticamente i suoi risultati senza ricevere risposta dal suo avversario. In cambio ricevette importanti consensi da due altri studiosi eminenti quali erano E. F. Vacandard e H. Leclercq. La loro autorità e l'influsso delle loro opinioni, diffuse da mezzi di comunicazione di larga divulgazione (Dizionari), fruttarono alla tesi di Funk un notevole consenso che perdura fino ad oggi.

Ora bisogna costatare che F. X. Funk nell'elaborazione delle sue conclusioni non ha tenuto conto dei canoni generali della critica delle fonti, ciò che per uno studioso altamente qualificato, quale egli era senza dubbio, è veramente strano. Egli prese per buono e ne fece uno dei suoi argomenti principali contro l'opinione del Bickell il racconto spurio sul vescovo-monaco Paphnutius d'Egitto al Concilio di Nicea del 325. E ciò contro la fondamentale critica esterna delle fonti che già prima di lui aveva ripetutamente affermato la non- autenticità di tale episodio; cosa oggi accertata in seguito all’esame del Concilio di Nicea riguardo al nostro tema.

 

Diritto e legge

Uno dei più autorevoli teorici del diritto di questo secolo, Hans Kelsen, ha esplicitamente affermato che è errato identificare diritto e legge, ius et lex. Diritto (ius) è ogni norma giuridica obbligatoria, sia essa stata data solo oralmente e tramandata attraverso una consuetudine o sia stata espressa già per iscritto. Legge (lex) invece è ogni disposizione data per iscritto e promulgata in forma legittima.

È una particolarità tipica del diritto che l'origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie, le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto. Così i Romani, che sono l'espressione del più perfetto genio giuridico, solamente dopo secoli hanno avuto la legge scritta delle Dodici Tavole. Tutti i popoli germanici hanno redatto per iscritto i loro ordinamenti giuridici popolari e consuetudinari dopo molti secoli di esistenza. Il loro diritto era fino a quel tempo non scritto e veniva trasmesso solo oralmente.

Applicando questa distinzione al celibato ecclesiastico è lecito dire che la legge ecclesiastica, più tardiva, si fondò su un precedente diritto di origine divino-apostolica tramandato nella Chiesa, come dimostreremo.

“La conclusione più notevole è che la regola, concepita come derivante dal diritto divino/apostolico, non potrebbe essere abrogata dall’ autorità ecclesiastica: quindi la Chiesa non avrebbe il diritto di abolire il celibato dei preti” (F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, IV ed., 1968, I vol. p. 268, voce Celibato ecclesiastico, a cura di P. Palazzini).

 

Le prime leggi sul celibato nella Chiesa latina

Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si radunarono vescovi e sacerdoti della Chiesa in Ispagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune la Spagna appartenente alla parte occidentale dell'Impero Romano. In 81 canoni si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire i rinnovamenti necessari.

Il can. 33 contiene la prima legge sul celibato. Sotto la rubrica “Sui vescovi e i ministri (dell'altare) che devono essere continenti dalle loro consorti” sta il testo dispositivo seguente: “Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, i quali devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale”. Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Con il can. 33 essi erano obbligati, dopo essere stati ordinati, ad una rinuncia completa di ogni uso del matrimonio.

Dopo questa legge importante di Elvira dobbiamo considerarne un' altra, ancora più importante per la nostra questione. Si tratta di una dichiarazione vincolante, fatta nel secondo Concilio africano dell'anno 390 e ripetuta nei Concili africani successivi per essere poi inserita nel Codice dei canoni della Chiesa africana (e nei canoni in causa Apiarii) formalizzato nell' importante Concilio dell'anno 419.

Sotto la rubrica “Che la castità dei Leviti e sacerdoti deve essere custodita” è riportata la seguente risposta: “Noi tutti siamo d'accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all'altare sia conservata la castità”.

Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che un tale obbligo viene espressamente collegato con l'Ordine sacro ricevuto e con il servizio dell'altare. Soprattutto si riporta esplicitamente quest’ ordine ad un insegnamento degli Apostoli e all'osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e lo si inculca con la conferma unanime di tutto l'episcopato africano.

Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari africane, si può conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica.

Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo. Egli si appellò a Roma, ove si accettò questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea, il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi africani si dichiararono solidali con il loro collega nell’episcopato affermando di non conoscere questo canone niceno. In varie adunanze, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii. Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale riguardo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un siffatto canone niceno.

La svista della Chiesa Romana si spiegò poi con il fatto che a Roma ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell'anno 342, di nuovo sulla questione ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba. Per questo motivo nell'archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso il suddetto canone (can. 3), ma la Chiesa africana non ebbe difficoltà di provare a papa Zosimo la sua erronea attribuzione al Concilio di Nicea.

Nel Concilio del 419 fu ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici che nel Concilio del 390 era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale Faustino, sotto la rubrica: "Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli", aggiunse: "Noi siamo d'accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità, devono astenersi dalle loro spose". A ciò tutti i vescovi risposero: "Siamo d'accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all'altare deve essere custodita la castità".

Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo del trattato dal presidente Aurelio: "Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quanto è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri Concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri, ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo".

Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa africana della fine del secolo IV e dell'inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta la chiara coscienza di una Tradizione di origine apostolica, che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni, infatti, nell'archivio della Chiesa africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti con il celibato ecclesiastico sarebbero state respinte come la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.

Da tutto questo risulta anche la coscienza di una Tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale erano in viva comunione fra di loro. Ciò che dalla Chiesa africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all'origine apostolica e all' osservanza tramandata dall'antichità della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non generalmente noto.

 

L’importanza di Roma

Un'affermazione generale sull' importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da Sant'Ireneo di Lione il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato all’Apostolo Giovanni, di cui egli tramandava l’insegnamento, come vescovo di Lione dall'anno 178, anche alla Chiesa d'Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresie dice che la Tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma, che è stata fondata dagli Apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa, possiamo ben dire che ciò vale anche per la Tradizione apostolica sulla continenza degli ecclesiastici.

Il Legato Pontificio Faustino manifestò a Cartagine la piena concordanza di Roma su questa questione, ivi solo incidentalmente sollevata.

Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell'Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell'anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell' anno 418. L'ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici.

Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la Tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l'osservanza del celibato clericale. Queste testimonianze sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.

San Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: “La legge della continenza è la stessa per i ministri dell'altare (suddiaconi e diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventi un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandano via, ma che si abbiano come se non le avessero, affinché così rimanga salvo l'amore coniugale, ma cessi allo stesso tempo anche l'uso del matrimonio”.

Bisogna inoltre osservare che già San Leone Magno ha esteso l'obbligo di continenza dopo l'ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che fino ad allora non era chiara a causa del dubbio se l'ordine del suddiaconato appartenesse o no agli ordini maggiori.

San Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale dato che egli dispose semplicemente che anche l'ordinazione a suddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l'obbligo della continenza perfetta. Inoltre si impegnò ripetutamente affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea.

San Girolamo conosceva bene la tradizione sia dell'Occidente sia dell'Oriente e ciò per esperienza personale. Egli dice, nella sua confutazione di Gioviniano, che è del 393, senza alcuna distinzione tra Oriente ed Occidente, che l'Apostolo san Paolo, nel noto passo della sua lettera a Tito, ha scritto che un candidato all'Ordine sacro sposato doveva aver contratto matrimonio una volta sola, doveva aver educato bene i suoi figli, ma non poteva più generare altri figli in sèguito.

Dalla prassi disciplinare occidentale finora accertata consegue che la continenza dei tre ultimi gradi del ministero clericale nella Chiesa si manifesta quale obbligo, che viene riportato agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della Tradizione apostolica orale.

Tutto ciò non appare mai come una innovazione, ma viene riferito alle origini della Chiesa. Siamo perciò autorizzati a considerare una tale prassi, conformemente alle regole del giusto metodo giuridico storico, come vero obbligo vincolante, tramandato dalla Tradizione apostolica orale prima che venisse fissato da leggi scritte.

 

Il “Decreto di Graziano” e la favola di Paphnuzio

Il monaco camaldolese Giovanni Graziano ha composto attorno al 1142 a Bologna la sua "Concordia discordantium canonum" chiamata poi semplicemente “Decreto di Graziano”, nel quale egli ha raccolto tutto il materiale giuridico del primo millennio della Chiesa e ha messo d'accordo le varie e differenti norme.

In questo “Decreto di Graziano” si tratta naturalmente anche della questione e dell'obbligo della continenza dei chierici e lo si fa precisamente nelle Distinzioni (della prima parte del Decreto) dalla 26 alla 34 e poi ancora dalla 81 alla 84. Lo stesso avviene anche nelle altre parti del Corpus Iuris (Canonici), che ora viene formandosi, in occasione della promulgazione delle rispettive leggi.

In Graziano ci imbattiamo subito con il fatto che nella questione del celibato ecclesiastico egli ha accettato come veramente accaduta al Concilio di Nicea la favola storica di Paphnutius e che egli, insieme al canone 13 del Concilio Trullano II del 691, ha accettato acriticamente la differenza tra la prassi celibataria della Chiesa Occidentale e Orientale.

Riguardo al celibato dei sacerdoti, dei diaconi e dei suddiaconi si invoca una notizia su un eremita e vescovo del deserto egiziano di nome Paphnuzio, il quale si sarebbe alzato per dissuadere i Padri del Concilio di Nicea dal sancire un obbligo generale di continenza, che si dovrebbe lasciare, invece, alla decisione delle Chiese particolari. Tale consiglio sarebbe stato accettato dall'assemblea.

Il noto storiografo della Chiesa, Eusebio di Cesarea, il quale era presente come Padre Conciliare, non riferisce nulla su questo episodio, certo di non poca importanza per tutta la Chiesa, ma lo sentiamo per la prima volta dopo più di cento anni dal Concilio dai due scrittori ecclesiastici bizantini: Socrate e Sozomeno.

Socrate indica come sua fonte un uomo molto vecchio che sarebbe stato presente al Concilio Niceno e che gli avrebbe raccontato vari episodi su fatti e personaggi di esso. Se si pensa che Socrate, nato attorno al 380, ha sentito questo racconto quando era lui stesso assai giovane da uno che nel 325 non poteva essere molto più di un bambino e non poteva essere preso quale testimone ben cosciente dei fatti del Concilio, anche la più elementare critica delle fonti deve avere seri dubbi sulla autenticità di questa narrazione che avrebbe bisogno di avalli ben più certi.

Questi dubbi sono stati effettivamente mossi relativamente presto nell'Occidente dal papa Gregorio VII e da Bernoldo di Costanza. Nei tempi più recenti merita attenzione il commento che Valesius, editore delle opere di Socrate e di Sozomeno, ha fatto a questa narrazione nel 1668 e che il Migne ha stampato nella sua Patrologia Greca, vol. 67. L'umanista de Valois (Valesius) dice espressamente che tale racconto su Paphnutius è sospetto perché tra i Padri del Concilio provenienti dall'Egitto non comparirebbe mai un vescovo di tale nome. E al rispettivo passo della storia del Sozomeno ripete che la storia del Paphnutius è una favola inventata, soprattutto perché tra i Padri che hanno sottoscritto gli Atti del Concilio di Nicea non vi è nessuno che abbia questo nome.

Recentemente ha indagato su questo racconto lo studioso tedesco Friedhelm Winckelmann, il quale è venuto alla conclusione, da considerare definitiva, che si tratta di un fatto inventato, perché la persona di Paphnuzio è stata tirata fuori solo più tardi, il suo nome appare solo nei manoscritti tardivi degli Atti del Concilio e perché alcuni scritti del IV secolo lo conoscono solo quale confessore della fede; solamente più tardi leggende agiografiche lo innalzano a taumaturgo e Padre del Concilio di Nicea.