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Categoria: Anno 2015

LA DOTTRINA SOCIALE E LA PRATICA CARITATIVA DELLA CHIESA CONTRO L’USURA

Un’innovazione di importante valore sociale

I Monti di Pietà nascono come luoghi o enti pubblici con lo scopo di «prestare denaro in cambio di un pegno […] per combattere l’usura e venire in aiuto delle classi meno abbienti. […]. La fondazione dei Monti di Pietà fu un’innovazione importantissima, dal punto di vista sociale, sorta attorno al Quattrocento […]

se ne avvantaggiarono quanti non avevano solide garanzie da offrire e sarebbero stati costretti a ricorrere agli usurai» (Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1952, vol. VIII, col. 1378 e 1380, voce Mondi di Pietà) oppure alle banche, che prestano ad interessi leciti legalmente, ma moralmente ingiusti (30-35% circa[1]) e quindi in realtà sono usurai legalizzati[2].

I Francescani riformati del XV secolo (il Beato Bernardino da Feltre, S. Giacomo della Marca, S. Bernardino da Siena) idearono e attuarono i primi Monti di Pietà a scopo caritativo, concedendo assistenza ai bisognosi mediante mutui quasi gratuiti. Essi furono chiamati anche Montes Christi o Deposita Apostolorum per distinguerli dalla banche a scopo lucrativo[3].

Il primo Monte di Pietà nacque in Umbria a Perugia ad opera di padre Michele Càrcano nel 1462, in seguito se ne aprirono altri in Orvieto nel 1463, in Toscana, in Romagna, nell’Italia settentrionale e quindi in tutta Italia.

I fondi erano costituiti dalle elargizioni lasciate dai fedeli facoltosi ai Francescani. Poi una volta formatasi una consistente disponibilità di denaro liquido, chi ne aveva bisogno ne faceva richiesta, depositando come pegno al Monte di Pietà un oggetto prezioso che veniva stimato in denaro, con l’impegno di restituire al tempo stabilito la somma di denaro pattuita e ricevuta. Allo scader del tempo il mutuatario restituiva la somma di denaro con l’aggiunta di un piccolo interesse del 4% circa l’anno[4] per mantenere in piedi il Monte di Pietà. Il pegno, se non veniva richiesto o non poteva essere riscattato allo scader del tempo pattuito era venduto e il prezzo ricavato entrava nel fondo del Monte per il mutuo ai poveri.

Per il primo Monte di Perugia (1462) le regole erano tre: 1°) il mutuo doveva darsi solo ai poveri e non ai benestanti, in piccola quantità e non per oltre un anno; 2°) chi riceveva il mutuo doveva depositare presso il Monte un pegno, valutato e custodito dai responsabili del Monte stesso. Dopo un anno, se il mutuo non veniva restituito, il pegno era venduto e l’eventuale sovrappiù andava al mutuatario, mentre l’equivalente del prestito andava al fondo del Monte di Pietà; 3°) i mutuatari dovevano dare un modico interesse (il 4% circa) unicamente per il giusto salario dei dipendenti del Monte e per le altre spese (affitto, mantenimento della casa, pulizie, restauri…).

Se all’inizio solo i poveri potevano ottenere il mutuo, col passar del tempo e la crescita dei fondi dei Monti si concessero mutui anche alle autorità civili, qualora vi fossero delle necessità pubbliche, ma sempre all’interesse minimo (4%). Il sopravanzo veniva reinvestito dai Monti, in altre opere pie (ospedali, scuole, mense, ostelli per i poveri…).

 

Polemiche sulla liceità morale dei Monti di Pietà

La nascita dei Monti di Pietà suscitò molte dispute, soprattutto tra Domenicani contrari ai Monti e i Francescani favorevoli.

Il Concilio di Vienna (1311, DB 749) aveva proibito l’usura ed anche il minimo guadagno a partire dal prestito di un bene di scambio o “fungibile” come il denaro. Ora i Monti prestavano denaro e guadagnavano un minimo da tale prestito. Quindi i Domenicani ritenevano l’attività dei Monti del tutto illecita e usuraia, mentre i Francescani obiettavano che il guadagno non derivava del prestito del denaro, ma dal contributo dovuto al mantenimento e al funzionamento dei Monti con i loro dipendenti.

I canonisti e i moralisti scesero in campo e attaccarono battaglia. Il padre agostiniano Nicola Boriano pubblicò un libro intitolato De Montibus Impietatis (Cremona,1494). Il francescano Bernardino da Bustis gli rispose col libro Defensorium Montis Pietatis contra figmenta omnia del 1497, in cui condannava l’usura in quanto guadagno derivante dal solo prestito di denaro e dall’intento di arricchirsi col prestito. I Monti, però, non ricavavano denaro dal prestito, ma lo impiegavano per il mantenimento delle loro case e dei loro impiegati e non avevano alcuna intenzione di arricchirsi, ma di impedire lo sfruttamento dei poveri da parte dei veri usurai; perciò il mutuo praticato dai Monti non era illecito né usuraio, era il giusto guadagno per un opera prestata (affitto di una casa, stipendio di un impiegato ragioniere…). Anche il famoso teologo domenicano cardinal Tommaso de Vio, detto il Cajetanus, scrisse un Tractatus de Montibus Pietatis nel 1498 e si schierò contro i Monti.

 

L’intervento del Magistero

Dovette intervenire il Magistero ecclesiastico e papa Leone X (1513-1521) nel V Concilio Lateranense (sessione X, maggio 1515, DB 739) discusse la liceità del prestito ad interesse. Il Concilio e il Papa decretarono che siccome il guadagno veniva ai Monti di Pietà non dal prestito del denaro, ma dal dovuto pagamento del giusto salario agli impiegati e dalle spese per la conservazione materiale del Monte, tale guadagno era del tutto lecito e non usuraio.

Secondo la Teologia scolastica solo due fonti possono dare un lucro lecito: la natura o la sostanza (albero da frutta, terreno, casa…) e il lavoro (seminare, irrigare, mietere, potare, raccogliere, fare i conti, insegnare…). Ora nel caso dei Monti di Pietà vi è la casa in cui si concede il mutuo e i dipendenti che vi lavorano. Inoltre – anche per alcuni domenicani – vi sono tre eccezioni, che confermano la regola e che rendono lecito il guadagno sul mutuo di una cosa in sé infruttuosa come il denaro: 1°) se dal prestito subisco un danno (non ho più il milione con cui potevo comprare una casa); 2°) se cessa il lucro che ottenevo dalla cosa prestata (la mia famiglia ora deve pagare l’affitto non avendo io potuto acquistare la casa); 3°) se corro il pericolo di non riavere il bene che ho prestato (Tizio è vecchio o poco serio e forse non arriverà all’anno prossimo o non vorrà restituire il dovuto). In questi tre casi si ha il diritto di esigere qualcosa, ma non in forza del mutuo o prestito o dell’uso del denaro, bensì per motivi estrinseci al mutuo in quanto tale o all’uso del denaro (cfr. il domenicano Charles René Billuart, Cursus Theologiae. Tractatus de contractibus, diss. IV, a. 5 § 4, che cita in suo favore i domenicani sant’Antonino di Firenze, Gaetano e Francesco de’ Silvestri detto Ferrarense).

Benedetto XIV nell’ Enciclica Vix pervenit (1° novembre 1745) ha confermato le leggi precedenti e le dovute eccezioni che confermano la regola: «Dal prestito, per sua natura, si esige che sia restituito solo ciò che fu prestato. Se si chiede più di ciò che si prestò, pretendendo che oltre il capitale sia dovuto un certo guadagno in ragione del prestito stesso, vi è usura. […] Non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri titoli esterni al mutuo stesso […] e che da essi derivi una ragione lecita per chiedere qualcosa in più del capitale che si prestò». Se in pratica la disciplina viene mitigata, non cambia la dottrina sul concetto di usura, e «questo cambiamento viene attribuito  alle condizioni economiche e ai titoli estrinseci moltiplicati» (F. Roberti - P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, Roma, Studium, 4a ed., 1968, 2° vol., p. 1738, voce Usura).

Il CIC (1917) can. 1543 sanziona tale principio nella prima parte del canone «se un bene viene dato a qualcuno in proprietà perché lo restituisca più tardi nello stesso genere, da questo contratto non è lecito prendere nessun guadagno in ragione dello stesso contratto [“ratione ipsius contracti”]». Ma dopo aver ribadito nella prima parte la dottrina tradizionale sulla sostanza o natura del mutuo, la seconda parte del canone parla, in concreto, delle circostanze estrinseche al mutuo «nel prestito della cosa fungibile, non è illecito mettersi d’accordo su un guadagno ammesso dalla legge, eccetto che non consti essere sproporzionato» (cfr. F. Roberti - P. Palazzini, op. cit., II vol., pp. 1739-1740, voce Usura),

 

Degenerazione dei Monti di Pietà

I Monti di Pietà si diffusero in tutta Europa. Pian piano però iniziarono a degenerare e a diventare vere e proprie banche che prestavano denaro e guadagnavano dal prestito in maniera sproporzionata, ossia ben oltre il 4%. Dopo il Settecento e soprattutto dopo l’epoca napoleonica i Monti furono sottratti alla Chiesa, la quale esigeva ancora la chiusura del Monte richiedente un interesse superiore al 4% (massimo 6%), e divennero strumento di prestito ad alto interesse (30-35%).

 

L’economia classica

I Monti di Pietà ci fanno capire l’importanza della vera economia e politica.

Aristotele[5] parla della politica come di una scienza architettonica, la quale coordina e dirige tutte le altre scienze pratiche (l’economia, il diritto, la medicina, l’edilizia, ecc…), che essa applica per regolare la convivenza pacifica della comunità[6].

Nello stabilire la gerarchia della Prudenza pubblica, anche San Tommaso d’Aquino mette al primo posto la politica, che è la virtù di Prudenza ordinata al bene comune dello Stato, poi l’economia, Prudenza che si occupa del bene della casa o della famiglia; infine la monastica, Prudenza che si occupa del bene comune della singola persona[7].

Economia significa “governo della famiglia o del focolare domestico” (dal greco “òikos, casa” e “némein, governare”). La famiglia,– secondo Aristotele (Polit., A, 3, 1253b, 8-14) e San Tommaso (S. Th., II-II, q. 47, aa. 11-12; ivi, q. 50, aa. 1-3) – è la cellula dello Stato. L’Economia innanzi tutto è la virtù del buon ordinamento familiare; essa si occupa delle relazioni tra i membri di una famiglia, tra moglie e marito, genitori e figli, padroni e servi (la pace e l’armonia interna alla famiglia). In secondo luogo l’Economia si occupa di tutto ciò che può essere posseduto e governato dalla famiglia, ossia sue condizioni di sussistenza (benessere comune temporale familiare). Il benessere materiale ha rapporto con la prudenza economica non come Fine ultimo, ma come causa strumentale in ordine al raggiungimento del Fine ultimo, ossia i beni esterni sono un mezzo di cui la famiglia si deve servire per vivere virtuosamente e unirsi a Dio (S. Th., II-II, q. 50, a. 3, ad 1; ivi, q. 47, a. 12).

Sempre per l’Angelico è del tutto lecito avere un’ordinata sollecitudine per procurare il necessario a sé e alla propria famiglia ed anche per provvedere alle necessità future (S. Th., II-II, q. 55, a. 6, ad 2; ivi, a. 7). Solo la preoccupazione disordinata per i beni materiali è riprovevole poiché antepone i beni terreni a quelli ultraterreni.

 

Il rovesciamento moderno dell’ economia

Il rovesciamento dell’economia classica è l’Affaristica moderna (contro cui furono eretti i Monti di Pietà), che considera l’arte di arricchirsi come il Fine ultimo dell’uomo e delle famiglie. Alla sana Economia familiare segue l’ordine sociale o la Politica tradizionale, che si fonda sul Diritto naturale, e all’Affaristica segue la Plutocrazia, che è il governo della Finanza su questo mondo in vista solo dei beni terreni.

La produzione della moneta per San Tommaso, in quanto misura stabile del valore dei beni di natura, è un’arte ausiliare al servizio del benessere temporale delle famiglie, che unite formano lo Stato. Perciò coloro che presiedono ai problemi monetari debbono essere subordinati a coloro che si occupano della sana Economia delle famiglie e della Politica o vita dello Stato.

Se per Aristotele la moneta aveva solo una funzione di scambio con i beni di natura e non poteva mai essere mezzo di guadagno (Etica, V, 10, 1933a 20; Politica, III, 13, 1257a 35), per San Tommaso (S. Th., II-II, q. 77, a. 4; ivi, q. 78, a. 1) è lecito negoziare e guadagnare attraverso il commercio vendendo un bene naturale ad un prezzo moderatamente più caro di quello a cui si è comperato (“lucrum moderatum”). Infatti, se il commerciante ha apportato delle migliorie al bene comprato o si è esposto a dei pericoli nel trasporto della merce, è giusto che la rivenda ad un prezzo proporzionatamente più alto di quello a cui l’ha pagata. Il guadagno, in questo caso, è il compenso di un lavoro e non una ruberia. Se invece si commercia solo per procurarsi guadagno, senza corrispondenza alle necessità della vita ed al lavoro svolto nella compra-vendita, allora vi è un disordine poiché porta alla cupidigia del lucro, che non ha confine, ma tende all’infinito. In questo senso il commercio non è più Economia, ma diventa Affaristica, Crematistica o Pecuniativa e contiene una certa malizia in se stesso (“quamdam turpitudinem habet”) in quanto non è ordinato a nessun fine onesto o necessario ma è fine a se stesso (cfr. Aristotele, Politica A, 3, 1258b 10 ss.; S. Tommaso, Commento alla Politica di Aristotele, lez. 7-8; B. Meerkerlbach, Summa Theologiae Moralis, II, n. 538).

 

Il Regno di Dio e di Mammona

Come si vede esistono due concezioni diametralmente opposte dell’ uomo, della famiglia e dello Stato. Da una parte la Plutocrazia o il Regno di Mammona e delle Banche, che fa della ricchezza materiale il fine ultimo dell’uomo e sottomette sia l’individuo che lo Stato alla Finanza. Il suo “dio” è l’oro. Essa è caratterizzata dal disordine delle passioni e specialmente all’Avarizia, che assieme all’Orgoglio e alla Sensualità è una delle tre Concupiscenze, triste retaggio del peccato originale e forza propulsiva del male e dell’ errore. L’instabilità, la smania e la ricerca frenetica del benessere materiale contraddistinguono la Plutocrazia.

Dall’altra parte vi è la vera e sana Economia, la quale dirige con Prudenza la famiglia al suo fine prossimo (ordine interno e benessere temporale) subordinatamente al Fine ultimo (Dio conosciuto, amato e posseduto).

La Dottrina sociale della Chiesa propone come rimedio possibile allo sfacelo della Plutocrazia/ Collettivismo/“Banco-crazia” l’unica via che si deve e si può percorrere: la Frugalità contro il Consumismo che spinge a spendere e spandere, ad indebitarsi e rovinarsi l’esistenza. Di qui la necessità dei Monti di Pietà contro la banca e l’usura.

La pratica della Chiesa sin dai primi secoli è sempre stata quella di soccorrere con fatti oltre che con parole i veri bisognosi. S. Teresa d’Avila diceva che “i veri poveri non fanno rumore” e i veri caritatevoli non chiamano le telecamere, come anticamente facevano i farisei che ordinavano di suonare le trombe quando distribuivano l’elemosina.

Oggi va di moda soccorrere chi fa chiasso, chi è prepotente, chi invade i Paesi cristiani per destabilizzarli. Non è questa la dottrina e la pratica della Chiesa di Cristo.

Bernardinus

 

[1] Per esempio se chiedo in prestito ad una banca la somma di 100 mila euro, dopo un anno le debbo i 100 mila euro più 30-35 mila euro, per cui l’interesse ammonta ad un quarto della somma ricevuta.

[2] In un certo senso le banche sono più pericolose degli usurai non ufficialmente legalizzati poiché questi ultimi possono essere denunziati,mentre le banche no.

[3] Cfr. P. Ballerini, De Montibus Pietatis, Bologna, 1747 ; F. Zech, Rigor moderatus doctrinae pontificae circa usuras, Venezia, 1763; L. Degani, I Monti di Pietà, Torino, 1922; A. Sapori, Enciclopedia Italiana, Roma, 1929-1937, vol. XXXIII, coll., 725-727, voce Monti di Pietà; G. Barbieri, Saggi di Storia economica italiana, Napoli, 1948; E. Degano, Mutuo e usura in Benedetto XIV, Roma, 1960.

[4] Per esempio, se chiedessi in prestito ad un vero Monte di Pietà la cifra di 100 mila euro, dopo un anno gli dovrei i 100 mila euro più 4 mila euro. Ora ciò significa dover contribuire con circa 330 euro il mese al pagamento del giusto salario dei dipendenti e alle spese per la manutenzione materiale del Monte, senza alcun lucro da parte di quest’ultimo. Mentre il prestito concessomi dalla banca mi farebbe esborsare circa 10 volte tanto, ossia circa 3000 euro al mese per il lucro della banca, meno circa 330 euro per la giusta paga degli impiegati e il mantenimento dell’edificio, con un guadagno di oltre 2.500 euro il mese da parte della banca. E questa è usura.

[5] Etica Nicomachea, I, 1106b 36; ivi, I, 1099a 6; ivi, II, 1107a 22-23; ivi, X, 1174a 2-8.

[6] S. Tommaso, Commento alla Politica di Aristotele, Bologna, ESD, 1999, pp. 38-39.

[7] S. Th., II-II, q. 47, a. 11, sed contra.