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Categoria: Anno 2015

Vi sono casi in cui è doveroso resistere all’Autorità ecclesiastica

Tre esempi nella storia della Chiesa

  1. Pietro e l’incidente di Antiochia (49 d. C.)

Già nel 50 d. C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù, si assisté ad un fatto riportato dalla S. Scrittura, commentato dai Padri ecclesiastici, dai Dottori scolastici e dagli storici della Chiesa. Infatti è divinamente rivelato che San Pietro ad Antiochia si comportò in maniera riprovevole e San Paolo lo rimproverò.

 

Questo comportamento “riprovevole” lo troviamo divinamente rivelato in S. Paolo (Epistola ai Galati, II, 11), il quale afferma: «Ho resistito in faccia a Pietro, poiché era reprensibile»[1].

Secondo la Tradizione patristica e scolastica (S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino) S. Pietro peccò venialmente di fragilità perché riprese ad osservare le cerimonie legali dell’ Antico Testamento per non scandalizzare i giudei convertiti al Cristianesimo, ma provocando lo scandalo dei cristiani provenienti dal paganesimo. E secondo la divina Rivelazione vi fu una resistenza pubblica di Paolo a Pietro, primo Papa[2].

Quindi S. Pietro non errò contro la Fede, come sostennero erroneamente gli anti-infallibilisti durante il Concilio Vaticano I, anche se con il suo comportamento commise un peccato veniale di fragilità a differenza di Onorio che peccò gravemente senza cader nell’eresia formale, ma favorendola per debolezza e negligenza.

Pietro peccò solo venialmente e di fragilità, ma, quando Paolo gli resistette in faccia e pubblicamente (Epistola ai Galati, II, 11), ebbe l’ umiltà di correggere il suo errore di comportamento che avrebbe potuto portare all’errore dottrinale dei Giudaizzanti, i quali volevano che s’ imponessero le cerimonie legali della legge mosaica anche ai gentili convertiti. Non si può negare la resistenza di Paolo a Pietro perché è divinamente rivelata: “Resistetti in faccia a Cefa, poiché era reprensibile […] alla presenza di tutti” (Galati, II, 11, 14)[3].

II

Nestorio (381-431) nega la Maternità divina di Maria

Un altro fatto ampiamente commentato dagli storici della Chiesa è quello avvenuto con Nestorio, patriarca di Costantinopoli, circa 350 anni dopo l’incidente di Antiochia.

Dom Prospero Guéranger, nella sua nota opera L'Année Liturgique, scrive: «I<l giorno di Natale del 428, Nestorio, approfittando dell'immenso concorso di fedeli venuti a festeggiare il parto della Vergine-Madre, dall'alto del soglio episcopale lanciò quella blasfema parola: "Maria non ha generato Dio: il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità". A queste parole la moltitudine fremette inorridita: interprete della generale indignazione, Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l'empietà. [...] Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l'elogio dei Concili e dei Papi!» (Dom Prospero Guéranger, L’anno liturgico, trad. it., Edizione Paoline, Alba, 1959, vol. I, pp. 795-796).

 

III

Papa Onorio I favorisce l’errore (625-628)

Fra i vari esempi di fatti del genere, indicati dalla storia della Chiesa, risalta, in terzo luogo, neppure 200 anni dopo il caso di Nestorio, quello di papa Onorio I. Questo Papa visse nel tempo in cui l'eresia monotelita faceva strage nella Chiesa d'Oriente. Negando l'esistenza di due volontà in Gesù Cristo, i monoteliti rinnovavano l'assurdo che Eutiche aveva introdotto nel dogma, pretendendo che in Gesù Cristo ci fosse un’unica natura, composta dalla natura divina e da quella umana.

Il patriarca di Costantinopoli, Sergio, abilmente insinuò nello spirito di Onorio I che la predicazione di due volontà nel Salvatore causava soltanto divisioni nel popolo fedele. Accondiscendendo ai desideri del patriarca, che erano anche quelli dell'imperatore di Costantinopoli, papa Onorio I proibì che si parlasse di due volontà nel Figlio di Dio fatto uomo.

Il Pontefice non si rese conto che il suo divieto (non formalmente e positivamente eretico) lasciava campo libero alla diffusione dell'eresia e la favoriva. Per questa ragione non si doveva prestare attenzione al suo divieto come pure all’ affermazione di Nestorio sulla Divina maternità di Maria SS. e all’agire pratico di S. Pietro ad Antiochia.

Onorio non era stato positivamente o formalmente eretico, ma vittima dei raggiri di Sergio, cui imprudentemente e negligentemente aveva acconsentito senza impegnarsi nella difesa della dottrina cattolica ortodossa. Perciò S. Leone II condannò Onorio più per la sua negligenza che per una consapevole eterodossia.

Nel III Concilio ecumenico di Costantinopoli (680-681) infatti papa S. Agatone (678-681) il 28 marzo del 681 aveva già condannato papa Onorio per aver aderito imprudentemente all’eresia (DB 262 ss. / DS 550 ss.) senza specificare, però, se si tratta di eresia materiale o formale. Ma nel Decreto di ratifica del Concilio Costantinopolitano III papa S. Leone II (682-683) specificò il 3 luglio 683 (DB 289 ss. / DS 561 ss.) i limiti della condanna di Onorio, che “non illuminò la Chiesa apostolica con la dottrina della Tradizione apostolica, ma permise che la Chiesa immacolata fosse macchiata da tradimento” (DS 563). Onorio, quindi, si era macchiato di eresia materiale ed aveva favorito l’eresia.

Inoltre Onorio non aveva definito né obbligato a credere la tesi di un’unica operazione teandrica in Cristo contenuta nell’ambigua Dichiarazione dell’ Epistola di Sergio a lui inviata. Quindi non aveva voluto essere assistito infallibilmente in tale atto, ma aveva utilizzato una forma di magistero autentico pastorale e non infallibile[4]. Perciò egli aveva potuto sbagliare, anche se per ingenuità e mancanza di fortezza, ma senza infrangere il dogma (definito poi dal Concilio Vaticano I) della infallibilità pontificia, come invece sostennero i protestanti nel XVI secolo e la setta dei “vecchi cattolici” nel secolo XIX. In breve Onorio aveva favorito l’eresia peccando gravemente, ma non era stato eretico.

 

Come comportarsi in questi casi? La regola generale

Dom Guéranger enuncia un principio generale: «Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi. Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede i loro capi. Ma nel tesoro della Rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni cristiano, per il fatto stesso ch'è cristiano, deve avere la necessaria conoscenza e la dovuta custodia. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio, gli sbandamenti simili a quelli di Onorio e le “eccesive prudenze” simili a quelle di S. Pietro ad Antiochia non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni pastori eccezionalmente tacciano, per un motivo o per l'altro, in talune circostanze in cui la stessa fede verrebbe ad essere coinvolta. In tali congiunture, i veri fedeli sono quelli che attingono solo nel loro battesimo l'ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono per aderire al nemico o per opporre alle sue imprese un programma che non è affatto necessario» (Ivi).

 

Importanza della Tradizione

Il valore della Tradizione è tale che anche le Encicliche e gli altri documenti del Magistero ordinario del Sommo Pontefice in cui non si vuol definire né obbligare a credere sono infallibili soltanto negli insegnamenti confermati dalla Tradizione (Pio IX, Lettera Tuas libenter, 1863), cioè da un continuo insegnamento della medesima dottrina, svolto da diversi Papi e per un ampio lasso di tempo.

Di conseguenza, l'atto del Magistero ordinario di un Papa che non definisce né obbliga a credere, il quale contrasti con l'insegnamento garantito dalla Tradizione magisteriale di diversi Papi attraverso un considerevole lasso di tempo, non deve essere accettato.

Si pensi all’attuale linea pastorale riguardo alla morale (Francesco I /card. Walter Kasper), che vorrebbe concedere i Sacramenti ai divorziati risposati ostinati nel loro peccato, che non vogliono correggersi e pretendono di ricevere egualmente i Sacramenti. Ogni cristiano che ha studiato il Catechismo sa che secondo la Legge divina ciò non è possibile, quindi deve prendere posizione contro tale linea da qualsiasi parte venga. Dal punto di vista dogmatico si pensi alle novità della collegialità episcopale (Lumen gentium), del panecumenismo (Unitatis redintegratio, Nostra aetate), delle due fonti della Rivelazione ridotte protestanicamente ad una: la “sola Scrittura” (Dei Verbum), del pancristismo teilhardiano (Gaudium et spes), della libertà dovuta alle false religioni (Dignitatis humanae).

Dal punto di vista liturgico si pensi al Novus Ordo Missae del 1968, che “si allontana in maniera impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della Messa come fu definita dal Concilio di Trento” (card. Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, Lettera di presentazione a Paolo VI del Breve Esame Critico del NOM).

Sono tutti casi questi in cui è lecito anzi doveroso sospendere l’ assenso alle decisioni novatrici del magistero pastorale e perciò non infallibile del Concilio Vaticano II e del post-concilio.

 

Norma per giudicare le novità

Custodiamo, quindi, con il massimo rispetto e con la massima attenzione, il criterio di verifica nei confronti delle novità che sorgono nella Chiesa: se si accordano con la Tradizione apostolica, bene. Se non si conformano, ma si oppongono alla Tradizione, oppure la sminuiscono non devono essere accettate.

Tradizione, certo, non è immobilismo. È crescita, ma nella stessa linea, nella stessa direzione, nello stesso senso, crescita di un essere vivo, che si conserva sempre lo stesso.

Detto questo, prendiamo come norma il seguente principio: “quando è evidente che una novità si allontana dalla dottrina tradizionale, è certo che non deve essere ammessa” (mons. Antonio De Castro Mayer, Lettera pastorale Aggiornamento e Tradizione, 11 aprile 1971, Diocesi di Campos in Brasile).

Quindi la Gerarchia può eccezionalmente errare e in tal caso si può lecitamente resistere ad essa pubblicamente, ma con il rispetto dovuto all’Autorità. Intanto occorre continuare a fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto prima che l’errore e la confusione penetrassero nella quasi totalità dall’ambiente ecclesiastico (S. Vincenzo da Lerino, Commonitorium, III, 5) e a credere ciò che la Chiesa ha sempre e ovunque creduto universalmente (“quod semper, ubique et ab omnibus”).

Il Dottore Angelico, in diverse sue opere, insegna che in casi estremi è doveroso resistere pubblicamente ad una decisione papale, come San Paolo resistette in faccia a San Pietro: «essendovi un pericolo prossimo per la Fede, i prelati devono essere ripresi, perfino pubblicamente, da parte dei loro soggetti. Così San Paolo, che era soggetto a San Pietro, lo riprese pubblicamente, a motivo di un pericolo imminente di scandalo in materia di Fede. E, come dice il commento di Sant’Agostino, “lo stesso San Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, se mai si allontanassero dalla retta strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. 2, 14)»[5].

Francisco de Vitoria scrive: «Secondo la legge naturale è lecito respingere la violenza con la violenza. Ora, con ordini e dispense abusive, il Papa esercita una violenza, perché agisce contro la legge. Quindi è lecito resistergli. Come osserva il Gaetano, non facciamo questa affermazione perché qualcuno abbia diritto di giudicare il Papa o abbia autorità su di lui, ma perché è lecito difendersi. Chiunque, infatti, ha il diritto di resistere ad un atto ingiusto, di cercare di impedirlo e di difendersi»[6].

E Francisco Suarez: «Se [il Prelato] emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve ubbidire: se tenta di fare qualcosa di manifestamente contrario alla giustizia e al bene comune, sarà lecito resistergli; se attaccherà con la forza, potrà essere respinto con la forza, con quella moderazione propria della legittima difesa»[7].

Infine San Roberto Bellarmino: «Com’è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime o perturba l’ordine civile, e, soprattutto, a quello che tenta di distruggere la Chiesa. Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina ed impedendo la esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri di un superiore»[8]. E la Santa Sede ha come superiore solo Dio.

Ilarius

 

[1] «La frase “era reprensibile” (della Vulgata) da alcuni esegeti è tradotta […] “messo dalla parte del torto”. È spiegato il fallo o il torto di Pietro, fallo definito con ogni precisione già da Tertulliano come sbaglio di comportamento non di dottrina” (De praescriptione haereticorum, XXIII)» (G. Ricciotti, Le Lettere di S. Paolo, Coletti, Roma, 1949, 3ª ed., pp. 227-228).

[2] “Per S. Agostino Pietro commise un peccato veniale di fragilità, preoccupandosi troppo di non dispiacere ai giudei convertiti al Cristianesimo...” (J. Tonneau, Commentaire à la Somme Théologique, Cerf, Paris, 1971, p. 334-335, nota 51, S. Th., III, q. 103, a.4, sol. 2). Secondo S. Tommaso d’Aquino “sembra che Pietro sia colpevole di uno scandalo attivo” (Somma Teologica, III, q. 103, a.4, ad 2). Inoltre l’Angelico precisa che Pietro ha commesso un peccato veniale non di proposito deliberato ma di fragilità (cfr. Quest. disput., De Veritate, q. 24, a. 9; Quest. Disput., De malo, q. 7, a. 7, ad 8um) per un'eccessiva prudenza nel non voler contrariare i giudei convertiti al Cristianesimo.

[3] Cfr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, “Cristianità”, n. 9, 1975; Id., È lecita la resistenza a decisioni dell’Autorità ecclesiastica?, “Cristianità”, n. 10, 1975; Id., Può esservi l’errore nei documenti del Magistero ecclesiastico?, “Cristianità”, n. 13, 1975.

[4] Cfr. Enciclopedia dei Papi, cit., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, 1° vol., pp. 585-590, voce Onorio I, a cura di Antonio Sennis.

[5] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II , q. 33, a. 4, ad 2.

[6] Francisco de Vitoria, Obras de Francisco de Vitoria, BAC, Madrid 1960, pp. 486-487.

[7] Francisco Suarez, De Fide, in Opera omnia, cit., Parigi 1858, tomo XII, disp. X, sect. VI, n. 16.

[8] San Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, in Opera omnia, Battezzati, Milano 1857, vol. I, lib. II, c. 29.