LA MORALE AUTONOMA

Il problema

Sotto il nome di morale autonoma o indipendente[1] si celano dottrine accidentalmente diverse, ma sostanzialmente simili. Ciò che le accomuna è l’elemento negativo, ossia la in-dipendenza; mentre ciò che le distingue è l’elemento positivo, ossia l’oggetto da cui non vogliono dipendere e del quale si vogliono liberare.

Inoltre vi è un elemento soggettivo, il quale rispecchia l’atteggiamento personale di coloro  che  vogliono rendersi indipendenti da tale o tale altro oggetto, che li priverebbe della loro autonomia.

Se si studia l’elemento positivo oggettivo, cioè l’oggetto da cui liberarsi, possiamo dividere la morale indipendente in: indipendenza da Dio, dalla Rivelazione, dalla metafisica, dalla sanzione e dall’ obbligazione. Se studiamo le differenze soggettive, o i vari modi di rendersi indipendenti, allora si avrà:  la morale agnostica, che vuol ignorare ogni oggetto da cui l’uomo possa dipendere e rifiuta di porsi il problema etico; oppure la morale scettica, la quale dubita della realtà e del valore degli oggetti che rifiuta e non vuol pronunziarsi su di essi, pretendendo di non poterli conoscere, ma solo di poterne dubitare; ed infine la morale nichilistica, che odia, rifiuta  e combatte i dogmi speculativi e i precetti morali tradizionali, naturali, oggettivi e divini per sostituirli con idee nuove soggettivistiche, volontaristiche, naturalistiche, edonistiche e materialistiche, comode per le esigenze dell’individuo.

Nel presente articolo studieremo innanzitutto le differenze oggettive della morale indipendente.

 

La morale indipendente da Dio

È la morale atea. Da un punto di vista filosofico l’ateismo è contraddittorio, assurdo e quindi inescusabile: il più non viene dal meno e senza una causa non vi è un effetto ed è impossibile che la ragione umana non risalga verticalmente (ente contingente/Ente necessario) dalla visione dell’universo alla sua Causa universale, prima ed in-causata, senza procedere all’ infinito, orizzontalmente (figlio/ padre…).

Tuttavia, dal punto di vista psicologico, si può dire che l’ignoranza di Dio relativa, per ignoranza invincibile, è possibile a titolo di patologia fisica o morale/psicologica per traumi subìti specialmente nell’ infanzia. Infatti la personalità umana è talmente complessa e difficilmente spiegabile (“individuum est ineffabile”) da far sì che l’uomo ateo può, per una sorta di oscuramento psichico, lasciar convivere in sé la teoria atea erronea e un senso morale dignitoso, sebbene non ancorato a Dio e alla legge naturale e divina[2]. Il singolo uomo, con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, può negare Dio e continuare a sentire la voce della coscienza e può anche sforzarsi di obbedirle. È  il mistero dell’animo umano con le sue profondità  insondabili[3].

Ma se dal livello psicologico o dei fatti risaliamo all’origine della voce della coscienza morale, ossia se il problema non è più quello del carattere del singolo uomo e dei fatti concreti, ma quello metafisico, allora la tesi atea è contraddittoria e assurda (“ex nihilo aliquid fit / il nulla produrrebbe qualcosa”; la creatura per definizione non può essere in-dipendente dal Creatore) e la morale atea manca di fondamento. Infatti la coscienza e la morale sono  fondate in Dio autore della natura. Se Dio non esiste, la morale non è più oggettiva, reale ed universale, ma è soggettiva e relativa alle esigenze o capricci del singolo individuo come vorrebbero Kasper  e Bergoglio e la voce della coscienza, che applica i princìpi universali della legge morale ai casi particolari e concreti e approva l’atto buono e disapprova quello cattivo, non è fondata su nulla di reale e di stabile, ma sul mutare dei sentimenti e delle emozioni istintive dell’uomo.

Dal punto di vista  filosofico la voce della coscienza è un intralcio, un tabù, un “grillo parlante” da schiacciare e un pauroso fantasma medievale da scacciare. La morale  autonoma kantiana, che ritiene impossibile arrivare a Dio con la ragione metafisica (“Ragion pura”) e si illude di giungervi con il sentimento (“Ragion pratica”), il quale ha come oggetto il sensibile e non lo Spirito purissimo, contiene tutte queste caratteristiche e contraddizioni; essa è paragonabile ad un uomo che voglia vedere non con l’occhio ma con l’orecchio, il quale, invece, ha come oggetto il suono da sentire e non il colore da vedere.

L’ateismo ha due ramificazioni principali: 1°) ateismo negativo, che nega Dio ed in più lo combatte per annichilarlo, se possibile, e rimpiazzarlo col vuoto e col nulla (v. nichilismo metafisico); 2°) ateismo positivo,  che nega Dio, è contro Dio, ma sostituisce la fede in Dio con un’ideologia umana e utopistica (marxismo).

 

La morale indipendente dalla Rivelazione divina

Si può intendere in due maniere, la prima accettabile e la seconda erronea: 1°) come morale naturale iscritta nell’animo di ogni uomo, che, anche senza la divina Rivelazione (però non rifiutata), conosce le regole del bene agire moralmente; 2°) come etica che deriva da una religiosità puramente naturalistica e razionalistica e quindi rifiuta l’ esistenza e soprattutto ogni intervento della Rivelazione sulla morale, cioè nega  che Dio esiste e specialmente che può aiutare l’uomo a conoscere meglio, più facilmente e senza paura di errori il contenuto della morale naturale, rivelandolo positivamente; 3°) come forma di pelagianesimo pratico, secondo cui l’uomo, dopo il peccato originale, non ha bisogno  della grazia soprannaturale per osservare la legge morale. È insomma una forma di ateismo morale più che speculativo, che nega la necessità della grazia divina. Con questo sistema il problema teorico dell’ esistenza di Dio cede il passo al problema pratico del suo intervento ed aiuto nella direzione ed attuazione dell’agire umano. Ciò che preme asserire a questa terza categoria di atei è il fatto che l’uomo non ha bisogno di nessun ausilio trascendente l’ordine naturale per conoscere i suoi doveri morali ed assolverli. È una forma di fanatismo esaltato della religione e della morale puramente razionaliste e naturaliste (Pelagio/J. J. Rousseau). 

 

La morale indipendente dalla metafisica

È molto simile alla morale atea. Infatti alcuni rifiutano la metafisica per paura di doverne trarre conclusioni etiche che li disturbano e preferiscono ignorare per non vivere bene: “Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce perché le loro opere erano malvagie” (Gv., III, 19). Costoro sono praticamente atei e non vogliono essere neppure psicologicamente onesti e pronti ad ascoltare la voce della coscienza, anzi hanno scelto la via anti-metafisica proprio per non ascoltarla e soffocarla (“noluit intellegere ut bene ageret / non ha voluto conoscere per non dover agire moralmente bene”), come Pinocchio schiacciò contro il muro il grillo parlante. Tuttavia vi sono anche coloro che vorrebbero dare alla morale una base più solida dell’ essere, dell’essenza e della metafisica che secondo loro è astrusa e si fonda su puntelli deboli. Ma facendo così si privano dell’unica base stabile ed immutabile su cui possa poggiare la morale: l’essere per partecipazione e l’Essere per essenza, cioè Dio creatore dell’essere finito o per  partecipazione. Gli scolastici insegnano: “agere sequitur esse/prima si esiste e poi si agisce”. Perciò se si esclude l’essere, l’essenza e la metafisica o filosofia perenne, allora la morale oggettiva, universale, immutabile crolla e tutto diviene soggettivo, mutevole e campato in aria o fondato sul nulla. Abbandonare la metafisica per paura di costruire sulla sabbia equivale a voler costruire sulle nuvole o, peggio ancora, sul nulla, ma appoggiandosi sul nulla e sulle nuvole è certo che tutto crolla e affonda. Se si studiano, infatti, i surrogati della metafisica su cui si vorrebbe costruire la morale: la sociologia, la psicologia, la fisiologia, il benessere, la ricchezza, il piacere, l’onor del mondo, la solidarietà, il sentimentalismo, l’ estetica, si vede quanto siano deboli e inconsistenti rispetto alla filosofia perenne dell’essere, che risponde e risolve i grandi interrogativi che l’uomo si pone: chi sono? Donde vengo? Per quale scopo? Perché c’è il male?

La prima spinta a far filosofia viene all’uomo proprio dalla natura che lo circonda. Infatti essa fa nascere in lui, secondo Aristotele, il desiderio di sapere, di conoscere il perché degli eventi naturali che osserva, di scoprire la natura intima o l’essenza delle cose sensibili e materiali e di leggere dentro (“intus legere”) di loro, perché l’uomo, “animale razionale”, non si accontenta di osservare i fenomeni come le bestie, ma vuol conoscere la loro natura.

Inoltre l’uomo è spinto a conoscere anche da motivi pratici o morali, ossia sapere per quale scopo viviamo e come raggiungerlo. Insomma la filosofia (speculativa e pratica) dà una risposta a tutti gli interrogativi che si pone l’animo umano e ci aiuta ad agire correttamente per giungere al porto della nostra esistenza.

Nessun uomo di sana ragione può ignorare che il mondo esiste, che egli è un soggetto capace di conoscere e volere e che dunque deve fare il bene ed evitare il male. Cicerone chiamava la filosofia Dux vitae poiché il volere e l’agire presuppongono princìpi e leggi. La morale non può essere soggettiva, atea, a-filosofica, ma deve essere una conclusione pratica della filosofia teoretica e della metafisica. Senza l’ essere non c’è l’agire, senza princìpi e regole non vi è una retta pratica.

Tutta la vita normalmente vissuta di ogni uomo rigetta l’ agnosticismo o lo scetticismo come assurdità. Infatti l’uomo normale sa che le cose reali esistono fuori del suo pensiero e indipendentemente da esso e che le conosce come sono in se stesse e non applicando loro una propria forma soggettiva (come vorrebbe Kant).

Ciò vale per gli stessi filosofi o i moralisti soggettivisti e idealisti almeno nella vita pratica. Essi in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo della conoscenza e dell’ etica, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti.

Conoscere significa apprendere qualcosa come un oggetto il quale sta davanti a me indipendentemente dal mio pensiero (ob-jacet). Non sono io  che produco col mio pensiero questo oggetto che giace (jacet) davanti (ob) a me. Ora “l’azione segue l’essere e il modo di agire segue il modo d’essere”. Quindi conosco e agisco in base ad una realtà e a leggi oggettive.

Ogni uomo normale si rende conto che non è il suo pensiero a produrre la realtà e la morale, ma si tratta di una realtà e di una regola morale già costituita in se stessa prima che egli la conosca.

 

La morale indipendente dalla sanzione

È una forma di fierezza o alterigia, ora infantile ora tinta di eroismo titanico, che mostra ed ostenta di non temere i castighi e l’ira di Dio e di non aspirare ad una ricompensa ultra-terrena, anzi afferma di agire solo per il senso del dovere (“il dovere per il dovere”, Kant). La morale naturale e divinamente rivelata non disprezza l’eroismo, anzi lo presenta come un ideale cui tendere gradatamente con l’aiuto della grazia soprannaturale, ma, conscia anche della debolezza umana soprattutto dopo il peccato originale, non proibisce di ricorrere alla speranza della ricompensa celeste e al timore (prima servile e poi filiale) di Dio. Certamente lo spirito gretto del mercenario o dell’usuraio, intenti solo a contare il ricavato del loro lavoro o prestito, non è corretto e non è ammissibile neanche in morale; ma non si può apprezzare neppure l’ ostentazione del proprio disinteresse e del proprio eroismo perché ogni ostentazione è esagerata e quindi difettosa. Le grucce sono per gli storpi, non per i sani. Imporle ai secondi sarebbe sciocco, ma negarle ai primi sarebbe crudele.

L’indifferenza stoica, il puritanismo calvinista, l’amore totalmente disinteressato dei giansenisti e il dovere categorico kantiano non sono umani poiché non hanno di mira l’uomo com’è realmente, ma come lo pensano idealmente. Ora l’uomo ideale non è l’uomo reale. Quindi questi sistemi non corrispondono al reale e perciò sono falsi.

 

Morale indipendente dall’ obbligazione

È la tappa più estrema del puritanismo etico, che, per liberare la coscienza umana da ogni costrizione estrinseca, le toglie pure l’obbligo del dovere pensando di renderla più pura e perfetta. Ciò significa confondere il dovere morale, che obbliga dinanzi a Dio e alla propria coscienza morale, con il dovere giuridico e penale umano, che è una piccola parte della morale e nel quale l’obbligazione è rivestita dei caratteri di esteriorità, coattività, penalità, che la possono rendere ostica e non simpatica. Invece la coscienza morale, davanti all’obbligo morale e anche giuridico visto alla luce dell’etica naturale e divina, è spinta dall’amor di Dio ad osservare la sua legge senza eccessi di esteriorità  e di paura penalmente rigorista (“summum jus summa injuria / il diritto applicato troppo severamente è la massima ingiustizia”). La sana coscienza e la sana moralità fanno incontrare ed abbracciare il dovere con l’amore e “ubi amatur non laboratur et si laboratur labor amatur / se si ama non ci si affatica e se ci si affatica si ama la fatica” (S. Agostino).

In secondo luogo studiamo ora le differenze soggettive della morale indipendente, ossia i vari modi di rendersi indipendenti.

 

La morale agnostica

Essa vuol ignorare ogni oggetto da cui l’uomo possa dipendere e rifiuta di porsi il problema della verità. L’agnosticismo limita la possibilità di conoscere la verità soprattutto riguardo a Dio, che sarebbe totalmente inconoscibile dall’uomo. Essa riduce la conoscenza umana da razionale a puramente sensibile o animale. Quindi trascura le essenze, il perché delle cose, il Trascendente. Non li nega per principio o teoreticamente, come fa l’ateismo, ma è indifferente, non se ne cura, anzi afferma che in pratica è meglio non pensarci. In un certo senso è una filosofia peggiore anche dell’ ateismo, che almeno si pone il problema di Dio, sia pure per negarlo. Invece l’agnosticismo non vuol pensarci. Il modernismo, adottando l’ agnosticismo kantiano, è una forma di agnosticismo teologico, che risolve il problema di Dio per via di sentimento o esperienza religiosa[4]. In campo filosofico l’agnosticismo ha il suo massimo rappresentante in Kant, che limita la capacità conoscitiva razionale ai soli fenomeni  e la nega per il noumeno o essenza intelligibile, che sta al di là del  fenomeno sensibile. In teologia il maestro degli agnostici o il “dux dubitantium” è rabbi Mosè Maimonide (†1204), il quale asseriva che la ragione umana può dire solo ciò che Dio non è (im-materiale, in-creato, in-finito, im-perfetto…), e quindi non può conoscere alcuni suoi attributi, che sono perfezioni assolutamente semplici (essere, vero, bene, uno, bello).

Lo scetticismo è molto simile all’agnosticismo in quanto afferma che  1°) la ragione è limitata agli oggetti sensibili; 2°) la Trascendenza non esiste o al massimo è inconoscibile. Da questi due errori principali dello scetticismo ne  deriva la conclusione radicalmente annichilatrice della ragione, della morale e persino dell’essere creato e Increato.

Nel nichilismo filosofico post-moderno si ritrovano i due princìpi fondamentali dell’agnosticismo,  che dunque è il filo conduttore di tutta la modernità e post-modernità. L’ agnosticismo e lo scetticismo hanno causato 1°) la eclissi della ragione (v. Horkheimer, marxismo e priorità della praxis con una mano tesa alla religione ammodernata e aggiornata); 2°) la sua distruzione o annichilazione (v. Adorno & Marcuse, nichilismo freudiano radicale della Scuola di Francoforte) ed infine 3°) la morte dell’uomo, che per natura e nella sua essenza è un animale razionale (v. Focault, nichilismo strutturalistico francese sessantottino), onde la mortificazione o uccisione della ragione è la mortificazione o annichilazione e demotivazione dell’ uomo ed anche della verità (che  è conosciuta con la ragione). Ciò equivale a rinunziare a pensare e a giungere alla verità, cioè colpire a morte, nella sua natura, la vita umana poiché senza ragionare e senza verità non vi sono più l’agire per eccellenza dell’uomo (“animale razionale e libero”, Aristotele) e il suo scopo (“conoscere il vero ed amare il bene”) e quindi ciò che rende l’uomo veramente uomo: la sua essenza o causa formale e il suo scopo o causa finale. Restano solo la causa materiale (il puro corpo, come negli animali) e una causa efficiente, che non si sa quale sia poiché la modernità nega il principio di causalità (“se c’è un effetto c’è una causa”).

Inoltre ogni ente agisce per un fine (“omne agens agit propter finem”), quindi la modernità toglie all’uomo la finalità che è necessariamente legata alla sua natura di ente vivente e ragionevole e lo de-motivizza e de-moralizza. Infine, se si toglie la verità come oggetto di conoscenza, resta che l’uomo potrebbe conoscere solo il falso, che lo distorce, fuorvia, devia, demolisce ed infine lo dissocia, poiché se l’uomo perde il contatto con la realtà cade nella dissociazione mentale, ossia nella follia.

Concludendo l’agnosticismo è animato da una grande superbia nascosta sotto apparenze di umiltà (“chi sono io per poter dire di conoscere la verità?”; “chi sono io per predicare” Francesco I). Infatti l’ agnosticismo preferisce ignorare la tendenza naturale dell’intelletto al vero, anziché assecondarla e cercare di adeguare il proprio pensiero agli oggetti reali che gli si trovano attorno e davanti e, rifiutando di conformarsi al reale e al vero, giunge a voler creare la realtà e la morale col suo pensiero: “cogito ergo sum”/ “agisco come mi pare”.

 

La morale scettica

 Lo scetticismo è caratterizzato da una sfiducia assoluta e da un dubbio metodico nei confronti delle capacità raziocinative dell’intelletto umano. Va oltre l’agnosticismo, che si contentava di essere indifferente, di voler ignorare e non porsi il problema della conoscenza della verità. Infatti lo scetticismo dubita positivamente della realtà e del valore degli oggetti e non vuol pronunziarsi su di essi, pretendendo di non poterli conoscere, ma solo di poterne dubitare.

Lo scetticismo nega il valore oggettivo della conoscenza umana e quindi della certezza conoscitiva razionale. Ma se nessuna verità è conoscibile, almeno con certezza, anche quella degli scettici è incerta o inconoscibile totalmente[5]. Se si deve dubitare di tutto, perché non anche del sistema scettico? E se son certo solo di dubitare ho almeno una certezza: il mio dubbio. Giustamente S. Tommaso d’Aquino scriveva: “sono stolti e insinceri i dubbi sui fatti della più ovvia esistenza / dubitationes istae stultae sunt” (Commento alla Metafisica di Aristotele, lezione XV, n. 709).

Già Aristotele, circa 300 anni prima di Cristo, scriveva a proposito degli scettici e dei sofisti che negano l’evidenza e dubitano di tutto: “Eraclito dice di negare o almeno di dubitare del principio di non contraddizione, ma allora perché va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa pensando di camminare? E perché non si getta nel pozzo, ma si guarda bene dal farlo proprio come se fosse certo che cadere non è lo stesso che non cadere?” (Metafisica, IV, 4, 1008 b). Onde “lo scettico o il dubitante coerente dovrebbe chiudersi nel mutismo assoluto, perché parlare vuol dire avere ed esprimere certezze e quindi cessare di dubitare. Quindi Cratilo, che era uno scettico coerente, finì col tacere e muoveva solamente il dito poiché dubitava anche di se stesso” (Aristotele, Metafisica, IV, 5, 1010 a). In breve, ogni uomo fuori della discussione filosofica è immancabilmente realista e per lo scettico nell’atto di filosofare vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005 b). Infatti lo scettico Pirrone “per coerenza si sforzava di non badare ai precipizi, ma, assalito da un cane, si impaurì, ben distinguendo un cane da un agnello, senza dubitare minimamente della loro differenza” (Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 2).

 

La morale a-dogmatica o nichilistica

Odia, rifiuta  e combatte i dogmi speculativi e i precetti morali tradizionali, naturali, oggettivi e divini per sostituirli con idee nuove, soggettivistiche, naturalistiche, edonistiche e materialistiche, comode per le esigenze dell’individuo.

La filosofia eminentemente e strettamente nichilistica è quella di Nietzsche[6], anche se i sofisti con Gorgia (“nulla è, ma anche ammesso e non concesso che esista è incomprensibile e quindi inesprimibile”) nell’antichità (V secolo a. C.) e gli empiristi con Hume (“l’uomo sperimenta o percepisce solo fenomeni, che non sono enti reali, ma son soltanto ciò che appare alla coscienza sensibile individuale”) nella modernità (XVIII secolo) hanno sostenuto posizioni filosoficamente e praticamente pre-nichilistiche.

Nietzsche, partendo dal presupposto che il nulla sta alla base di ogni cosa, porta il nichilismo allo stato perfetto, e conclude che tutto ciò che l’uomo pensa (nichilismo logico), fa (nichilismo morale), è (nichilismo metafisico) non ha nessun senso. Quindi l’essere, l’agire e il pensare dell’uomo sono senza senso e privi di valore e vanno distrutti. Occorre, dunque, per Nietzsche distruggere non solo i valori morali tradizionali, ma anche la logica e la metafisica ossia l’essere per partecipazione (l’essere creato) che rimanda all’Essere stesso per essenza, ossia a Dio.

Il termine del nichilismo è l’odio contro Dio e la volontà deicida di distruggerlo (“Dio è morto”), se mai fosse possibile. Il nichilismo rappresenta l’ultima tappa della sovversione filosofica post-moderna e contemporanea iniziata con la modernità. Al posto dei valori teoretici e morali tradizionali si devono mettere i valori dionisiaci del piacere sfrenato del corpo e di questa terra.

 

L’eliminazione del bene onesto

 

[1] L. Taparelli D’Azeglio, Saggio teoretico di diritto naturale, Roma, Civiltà Cattolica Editrice, 1949, 8a ed.; U.  Padovani, Il fondamento e il contenuto della morale, Milano, Vita & Pensiero, 1947; G. Ceriani, La morale di Cristo, Milano, Vita & Pensiero, 1957; M. T. Antonelli, Il concetto d’imperatività della norma, Roma, Studium, 1960; V. Cathrein, Filosofia morale, Firenze, LEF, 1913, 2 voll.; P. Cambiaghi, Il laicismo, Padova, Gregoriana, 1960; D. Composta, L’ateismo nella filosofia del diritto, in “Salesianum”, XXXVI, 1964, I; A. Di Monda, La legge nuova della libertà secondo S. Tommaso d’Aquino, Napoli, 1954; R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 1999; F. D’Agostino, Filosofia del diritto, Torino, 1993; D. Composta, Filosofia del diritto, Roma, Urbaniana, 1991; Id., Teologia del diritto naturale, Brescia, 1972; R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 2000; Id., La filosofia del diritto secondo S. Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 2003.  

[2] Vi sono delle persone non credenti che, da un punto di vista puramente naturale, sono moralmente irreprensibili; mentre vi sono dei credenti, o sedicenti tali, che sono moralmente riprovevoli. “La fede senza le opere è morta” (S. Giacomo, Epistola, II, 14) e quindi i credenti ipocriti non possono salvarsi se restano tali. Ma è anche vero che “senza la fede è impossibile piacere a Dio” (S. Paolo, Ebr., XI, 6) e, se la colpevolezza soggettiva dell’incredulo per problemi patologici o psicologici la conosce solo Dio, tuttavia oggettivamente l’incredulità è peccaminosa. Infine l’ateo speculativo, che per principio – senza nessun problema personale patologico o psicologico – si rifiuta di risalire dall’effetto alla causa e dalle creature al Creatore è “inescusabile” (S. Paolo, Rom., I, 21).  

[3] Cfr. C. Fabro, voce «Ateismo», in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1949, vol. II, coll. 265-280; Id., Introduzione all’ateismo moderno, Roma, 1961; Id., L’uomo e il rischio di Dio, Roma, 1967; A. Del Noce, Il problema dell’ ateismo moderno, Bologna, 1964.

[4] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature. Solution thomiste des antinomie agnostiques, Parigi, Beauchesne, 1914, 2 voll. ; A. Zacchi, Dio, I vol., La negazione, Roma, Ferrari, 1925 ; C. Fabro, voce “Agnosticismo”, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, vol. I, 1948, coll. 497-488. 

[5] Cfr. A. Masnovo, Problemi di Metafisica e di Criteriologia, Milano, Vita & Pensiero, 1930.

[6] Cfr. Gf. Morra, Il cane di Zarathustra. Tutto Nietzsche per tutti, Milano, Ares, 2013.

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