LE RIORDINAZIONI Il problema e la sua attualità

Premessa

Nel precedente articolo sulla validità dei Sacramenti quanto alla loro essenza (materia/ forma/ intenzione) abbiamo visto che alcuni confondono i Riti accidentali con la sostanza dei Sacramenti e perciò reputano invalidi tutti i Sacramenti,

che nel corso della storia recente della Chiesa (1968-2014) hanno subìto modifiche accidentali quanto al Rito oppure anche quanto al Sacramento, ma lasciandone intatta la essenza e quindi la validità. Tali innovazioni non possono essere reputate invalidanti, anche se sono oggettivamente illecite (per esempio, l’olio non di olivo come materia della cresima e dell’estrema unzione; la sostituzione nella forma di consacrazione del vino del “per tutti” al posto di “per molti” e “mistero della fede” spostato dal cuore della forma consacratoria alla sua fine).

Nel presente articolo esamineremo l’errore di coloro che reputano invalidi tutti i Sacramenti (e non solo il matrimonio e la confessione) conferiti senza avere la giurisdizione da parte della gerarchia ecclesiastica. In particolare tratteremo del problema delle “riordinazioni”.

 

 

Un problema che riaffiora in epoche di particolare decadenza, ma definito infallibilmente dal Concilio di Trento

«“Riordinazione” – così riassume la questione mons. Piolanti  – è un termine moderno, con cui si indica l’uso invalso in alcuni periodi, e soltanto in alcuni ambienti, di ripetere l’Ordinazione ritenuta invalida perché compiuta da Ministri eretici, scismatici, deposti o scomunicati. […]. Nei secoli di particolare decadenza teologica e morale qua e là affiorarono l’errore e la pratica conseguente della Riordinazione già in uso presso i donatisti. […]. Le Ordinazioni fatte da papa Formoso (†896) furono ritenute invalide da papa Sergio III (†911) e in parte ripetute […]. Le ragioni accampate per le Riordinazioni è che lo Spirito Santo non può essere conferito da chi non lo ha e i Ministri eretici, scismatici, deposti o scomunicati non hanno la grazia santificante quindi non possono darla agli altri. Queste opinioni, già confutate da S. Agostino quanto al Donatismo, riapparvero nel medioevo e si fusero con altre, che in momenti di particolare anarchia ritornarono e furono applicate poco ponderatamente. Si insistette soprattutto sulla subordinazione alla Chiesa (alla gerarchia legittimamente stabilita) e si formulò il principio che per l’Ordinazione fosse necessaria non soltanto la potestas Ordinis, ma anche la licentia Ordinis exequendi (v. Ugo di Amiens, Rolando Bandinelli, Rufino), con un parallelo troppo stretto tra il potere di assolvere i peccati e quello di ordinare; si argomentava che come il sacerdote sprovvisto di giurisdizione assolve invalidamente, così il vescovo deposto, scomunicato, scismatico o eretico, essendo separato dalla Chiesa, non possiede l’officium seu mandatum exequendi Ordinis e l’opera sua è invalida. Tali dottrine hanno trovato anche in tempi recenti fautori (cfr. C. Baisi, Il Ministro straordinario degli Ordini sacri, Roma, 1935)[1]. Questa concezione, che potrebbe dirsi marginale, anche se accolta in pratica da qualche Papa, non ne compromise l’infallibilità, poiché non volle portare un giudizio definitorio sul caso concreto; contro di essa si affermò invece la dottrina comune, già enunciata nel secolo III da papa Stefano, poi da S. Agostino, da S. Gregorio Magno, da Rabano Mauro, da S. Pier Damiani, finché trionfò con S. Raimondo da Peñafort, Alessandro di Hales e soprattutto con S. Tommaso d’Aquino (S. Th., III, qq. 60-90; Suppl., q. 38, a. 2 e tutta la sacramentaria tomista). Il Concilio di Trento ha definito infallibilmente (sess. VII, De Baptismo, can. 4; DB 860) la validità del Battesimo conferito dagli eretici, ma si è astenuto dal dichiarare valide le Ordinazioni conferite da Ministri eretici, non perché su questo punto potesse sussistere dubbio, ma per non porre la dottrina di alcuni autori cattolici (tra cui S. Cipriano e Umberto di Selva Candida, Ugo di Amiens, Alessandro Bandinelli poi papa Alessandro III e Rufino) in opposizione con una verità oramai di fede» (A. Piolanti, Dizionario di teologia dommatica, Roma, Studium, V ed., 1957, pp. 354-356, voce “Riordinazioni”)[2].

A sua volta padre E. Amann ricorda  nel Dictionnaire de Théologie Catholique (diretto da p. Vacant) d’ora in poi DTC (Parigi, 1903-1951, vol. XIII, coll. 2385-2431) riprende le conclusioni del libro di L. Saltet, Les Réordinations. Etude sur le Sacrement de l’Ordre (Parigi, 1907), le riassume, le commenta e vi apporta delle sue considerazioni teologiche.

L. Saltet e E. Amann ricordano che il Concilio di Trento ha definito infallibilmente che la validità di un Sacramento (e non solo del Battesimo) non dipende dalla dignità interiore del ministro e neppure dalla rettitudine della sua fede (sess. XXIII, can. 12, DB 855), ma dal fatto che il ministro pone gli atti essenziali del Sacramento (materia e forma) con l’intenzione (almeno implicita e generica) di fare ciò che fa la Chiesa (can. 11, DB 854). A partire da questa definizione dogmatica e infallibile si può concludere quanto all’Ordine che un vescovo, anche se eretico, scismatico, moralmente indegno, consacra e ordina validamente a condizione che ponga la materia e la forma del sacramento più l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, anche se non ci crede o reputa che la Chiesa erri. Secondo p. Amann tale dottrina è di fede definita o perlomeno prossima alla fede (DTC, col. 2385). “Perciò la Chiesa dopo il Concilio di Trento proibisce assolutamente ogni Riordinazione” (DTC, col. 2386) a condizione che il Ministro eretico abbia conferito il Sacramento salva ejus substantia.

Tra i due studi, cui ci rifaremo, vi è una sola differenza accidentale: mentre per Piolanti il Concilio di Trento ha implicitamente definite valide le Ordinazioni fatte dai ministri eretici purché essi abbiano conferito il Sacramento salva ejus substantia (materia, forma, intenzione), per Saltet e Amman lo ha definito esplicitamente.

 

 

La “dottrina africana” e la “dottrina romana”

L’errore dei “Ri-ordinanti” e “Ri-battezzanti” nasce con il Montanismo, una deviazione inizialmente ascetica rigorista sorta nel 170 circa in Turchia occidentale (allora Frigia) ad opera del presbitero Montano, che viene condannato da papa Zefirino (†217). Tertulliano nel 213 cade nel Montanismo e nell’errore di “Ri-ordinare” e “Ri-battezzare” è seguito da S. Cipriano, Vescovo di Cartagine (†258). Da questi due autori cartaginesi nasce in Africa l’eresia donatista che prende il nome da Donato, Vescovo titolare di Cartagine dal 317 al 347, morto nel 355, il quale sosteneva, tra l’altro, che il Battesimo e i Sacramenti conferiti da Ministri eretici sono invalidi, poiché nessuno dà quel che non ha.

S. Cipriano sostenne l’invalidità del Battesimo conferito dagli eretici (e solo conseguentemente quella dell’Ordinazione) contro il papa  S. Stefano. S. Cipriano asseriva che solo la Chiesa di Cristo può santificare le anime e quindi i ministri, che hanno abbandonato la Chiesa o ne sono stati espulsi con la scomunica, non possono santificare; mentre papa Stefano asseriva che il sacramento ha valore di per sé e quindi quando il ministro, anche se eretico, pone la materia, la forma ed ha l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, anche se non ci crede o se reputa che la Chiesa si sbagli, amministra il Sacramento validamente (DTC, col. 2387).

Il grande Dottore che ha confutato in maniera magistrale e apodittica l’errore di S. Cipriano e dei donatisti è stato S. Agostino d’Ippona (†430) insegnando che i sacramenti ricevono la loro efficacia e validità non dal ministro secondario, ma da Cristo, e quindi sono santi e validi per sé (“ex opere operato”), non per i meriti degli uomini che li conferiscono (“ex opere operantis”) (cfr. A. Piolanti, Dizionario di teologia dommatica, Roma, Studium, V ed., 1957, pp. 128-130, voce “Donatismo”)[3].

S. Agostino e successivamente la scolastica con S. Tommaso d’ Aquino hanno ripreso e approfondito la dottrina già sostenuta da papa Stefano e il Concilio di Trento l’ha definita dogmaticamente e l’ha resa obbligatoria. Ma prima di arrivare alla definizione dogmatica, obbligante e infallibile le due dottrine (quella detta “africana” di S. Cipriano da Cartagine e quella detta “romana” di papa S. Stefano) si sono affrontate teologicamente anche con veemenza.

 

 

Chiesa di rito latino e Chiesa di rito greco

La teologia “romana” si impose abbastanza presto in occidente. Il Concilio di Arles (314) fece sua la teologia “romana” e i vescovi africani pian piano abbandonarono la pratica di riconferire i Sacramenti (DTC, col. 2389). L’oriente cristiano, invece, continuò a sostenere assolutamente e a praticare strettamente la dottrina di S. Cipriano di Cartagine ossia la teologia “africana” sull’invalidità e la reiterazione dei sacramenti conferiti fuori della Chiesa.

Tuttavia quando scoppiano le grandi controversie trinitarie e cristologiche (IV-V secolo), la situazione nella Chiesa di rito greco si fa abbastanza pesante e i Vescovi greci alle prese con nuove separazioni dalla Chiesa cattolica cominciano ad attenuare lo stretto rigore con cui reiteravano i sacramenti conferiti da eretici o scismatici, prima quanto al solo Battesimo e poi anche quanto all’Ordine (DTC, col. 2392).

Verso la fine del V secolo i Nestoriani formarono delle vere e proprie “chiese” dissidenti, eretiche e scismatiche, basate sull’errore monofisita (in Cristo vi è una sola natura, quella divina e non quella umana) e, privi di preparazione teologica ed emotivamente esacerbati, ricorsero “visceralmente” a soluzioni estreme, ritornando alla teologia “africana” col negare ogni validità ai sacramenti conferiti dai ministri che non appartenevano alla loro “chiesa” o meglio setta (DTC, col. 2395). La Chiesa cattolica di rito greco nel secolo VII, di fronte a tali eccessi dei settari monofisiti, iniziò ad abbandonare la teoria e la pratica delle riordinazioni, tuttavia non senza un qualche ritorno alla teologia “africana” (DTC, col. 2396).

Nella Chiesa di rito latino (Felice di Aptonga e Optato di Milevi), invece, si rafforza viepiù la teologia “romana” ostile alle riordinazioni, che oramai erano divenute una specie di ossessione (“ri-ordinazionismo”). Tuttavia persino nella Curia romana non mancarono esitazioni di molti teologi e canonisti. Papa Innocenzo I (402-417) in una lettera (cfr. Jaffé, Regesta Pontif. Rom., n. 303, PL, t. XX, coll. 526-537) usa termini forti sull’impossibilità di dare ciò che non si ha (“is qui honorem amisit, honorem dare non potest”) applicata ad un ministro eretico, che, essendo fuori della Chiesa, non può dare la grazia agli altri quando lui stesso ne è privo. Papa S. Leone Magno (440-461) riprende la teoria di Innocenzo I, mentre papa Atanasio II (496-498) è per la validità dei sacramenti conferiti da ministri eretici. Con papa Pelagio I (556-561), però, si ritorna alla tesi di S. Cipriano. Le prese di posizione di questi Papi, scrive p. Amann, sono dovute al fatto che durante il loro Pontificato si verificarono episodi poco edificanti di ministri sacri passati all’eresia e che avevano consacrato altri ministri. Quindi nelle loro epistole i Papi suddetti usarono espressioni forti per esprimere il loro pensiero personale come dottori privati e non come Pastori supremi della Chiesa universale (DTC, col. 2399). Per avere un parere teologico obiettivo e spassionato occorre attendere papa S. Gregorio Magno (590-604), il quale scrisse a Giovanni di Ravenna: “come il battezzato non deve essere ribattezzato, così l’ordinato o il consacrato non deve essere riordinato o riconsacrato” (Ep. 1, II, n. 46, PL, t. 77, col. 585). Come si vede, è la pura dottrina di S. Agostino (†430), che trionferà con S. Tommaso d’Aquino (†1274) e sarà definita infallibilmente e irreformabilmente dal Concilio di Trento (1545-1563).

Tra il VII e il IX secolo nella Chiesa latina vi fu una certa decadenza dei ministri, che fece regredire anche il livello teologico e canonico dell’epoca. La dottrina agostiniana viene abbandonata e si assiste alla pratica generalizzata delle riordinazioni senza “se” e senza “ma”. Poi vi fu il triste caso di papa Costantino II (767-769), eletto irregolarmente ma validamente (DTC, col. 2401), che fu dichiarato usurpatore, deposto e rimpiazzato da papa Stefano III. Ora papa Costantino aveva consacrato 8 vescovi, ordinato 8 preti e 4 diaconi e, siccome queste consacrazioni e ordinazioni erano state fatte fuori dei tempi liturgici in cui si suole conferire l’Ordine, ci si appigliò a questa circostanza del tutto contingente per dichiarare invalide le sue ordinazioni durante un Sinodo romano non dogmatico, presieduto da papa Stefano III. La teologia cattolica odierna, invece, le considera assolutamente valide (DTC, col. 2402).

Nel secolo IX vi fu un fatto ancora più increscioso: quello di papa Formoso (891-896), che dopo la sua morte fu riesumato e il suo cadavere venne giudicato nell’897 dal Sinodo romano detto “cadaverico” presieduto da papa Stefano VI e poi confermato da papa Sergio III. Inoltre il Sinodo si pronunciò sull’ invalidità di tutti gli atti e le Ordinazioni di papa  Formoso. In quest’epoca la teologia conobbe non solo una grave decadenza, ma una vera e propria “eclissi” (DTC, col. 2410). Questo stato di decadenza durò per tutto il secolo X. Vi furono dei buoni Pastori, che, provvisti di zelo forse eccessivo, mancavano però di buona formazione teologica e di ponderazione e che quindi nella reazione alla decadenza oltrepassarono i limiti più per eccesso di zelo, imprudenza e ignoranza che per malizia.

 

Contraddizioni nella stessa Curia romana

 

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[1] Tale posizione è stata ripresa, pur con molte sfumature, da M. Zalba, Num Ecclesia habeat potestatem invalidandi ritum sacramentalem Ordinis ab episcopis exclusis peractum, in Periodica, n. 77, 1988, pp. 289-328; 425-488; 575-612; n. 78, 1989, pp. 187-242. Nel 2010 un teologo gesuita l’ha ripresentata a Benedetto XVI che non l’ha accolta.

[2] L. Saltet, Les Réordinations. Etude sur le Sacrement de l’Ordre, Parigi, 1907; E. Amann, in Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. XIII, coll. 2385-2431; J. Morinus, Commentarius historicus et dogmaticus de sacris Ordinationibus, Parigi, 1655; S. Congregatio de Seminariis, Enchiridion Clericorum, Roma, 1938 ; Ph. Oppenheim, Sacramentum Ordinis secundum Pontificale Romanum, Torino, 1946.

[3] Cfr. G. Ricciotti, L’èra dei Martiri, Roma, 1955; A. Casamassa, Scritti patristici, Roma, 1956; U. Mannucci – A. Casamassa, Istituzioni di Patrologia, 2 voll., Roma, VI ed., 1948; A. Casamassa ha tradotto in italiano la Traditio apostolica di S. Ippolito, morto nel 235 circa, (Roma, 1947) il testo latino della Traditio apostolica è stato curato e pubblicato da da R. Connolly (Cambridge, 1916) e da G. Dix (Londra, 1967, II ed.) e tradotto in francese da B. Botte (Parigi, Cerf, 1946, 2a ed. 1984), ne esistono anche le versioni in copto, arabo ed etiopico.  Cfr. J. A. Cerrato, Hippolytus between East and West, Oxford, 2002; A. Nicotri, Che cos’è la Traditio apostolica di Ippolito?, in “Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2, 2005, pp. 219-237.