Il Cristianesimo equivale a “porgere l’altra guancia”?


Una ridicola ed irritante caricatura della mansuetudine cristiana

Gesù non è venuto ad abolire la Legge mosaica, ma a perfezionarla. Quando il Vangelo (Mt. 5, 38-41) dice che non bisogna opporsi al nemico, ma pregare per lui ed offrirgli anche l’altra guancia se occorre, parla dell’atteggiamento del singolo ogni volta che si tratta dei suoi personali interessi. La lezione quindi non può dirsi obbligante in senso rigoroso in ogni caso e per tutti; essa indica mediante tre esempi quasi paradossali, da non prendersi alla lettera, solo il traguardo a cui tutti devono mirare per elevarsi: non rispondere al male col male, ma vincere col bene il male (cfr. Rom.12, 21).

Una piena adesione allo spirito del Vangelo, perciò, non sopprime in noi il diritto alla legittima difesa (“vim vi repellere licet/è lecito respingere la forza con la forza”) né sopprime nel prossimo il diritto ad essere da noi amato, protetto e difeso contro le minacce del male.

Chi potrebbe essere così incoerente da indursi, appunto per amore di Cristo, a consentire ad un bruto di uccidere un bambino, pur potendolo impedire? È assurdo in casi siffatti appellarsi a un Vangelo della non violenza; si tratterebbe della più ridicola e irritante caricatura del Cristianesimo.

Quel che si dice del singolo vale con più ragione dello Stato, che deve tutelare la vita, l’onore, i beni, la libertà dei cittadini contro ogni ingiusto aggressore, ricorrendo – se necessario – anche alla forza. In ciò S. Paolo esclude ogni dubbio: “I governanti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa il bene [...]. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male” (Rom., XIII, 3-4).

In breve, la mansuetudine evangelica non va confusa con la passività e arrendevolezza a coloro che vogliono operare il male.

 

La legge del taglione e il suo perfezionamento evangelico

È a sproposito, dunque, che si cita il Vangelo di Matteo (V, 39) “A chi ti picchia la guancia destra porgi anche l’altra” per negare la liceità dell’autodifesa. Il significato o lo spirito del versetto evangelico è quello che ci è dato dai Padri della Chiesa.

Nel versetto precedente (V, 38) si legge: «Avete udito che fu detto ‘occhio per occhio dente per dente’». Vale a dire nella Legge antica, perché non fossero sorpassati i limiti della legittima difesa, si diceva che si poteva al massimo rendere pan per focaccia, ossia se era stato offeso un occhio si poteva offendere un solo occhio dell’offensore, non entrambi né tanto meno ucciderlo.

S. Agostino, infatti, commenta: «questa legge, detta del taglione, mirava a contenere gli eccessi della difesa, che avrebbero potuto far passare dal legittimo all’illegittimo o sproporzionato. La legge del taglione mirava a pareggiare la pena o la difesa con l’offesa e faceva in modo che la persona lesa non esagerasse nella legittima difesa. Poneva dunque un limite all’ira affinché non eccedesse. Non è colpevole chi vuole che sia punito giustamente chi lo ha ingiustamente offeso, ma, siccome nel volere la pena facilmente ci si fa prendere dall’odio e dall’orgoglio, è meglio perdonare. Così la Legge antica non è contraddetta, ma perfezionata dalla nuova ed evangelica, la quale allontana il rischio di eccesso di legittima difesa ancor meglio della legge del taglione. Perciò, se occorre sii disposto a perdonare, ma non ti devi sottomettere senza necessità. Infatti ciò potrebbe essere imprudenza e falsa umiltà e quasi un provocare Dio. Gesù stesso percosso rispose: “perché mi percuoti?” e non porse l’altra guancia (Io., XVIII). Il Vangelo qui non vieta il castigo del male e del reo che giovi a correggerlo, se fatto senza ira disordinata» (In Matth. V, 38).

In breve, la legge del taglione (Es., XXI, 24; Deut., XIX, 21; Lev., XXIV, 19), pur essendo buona in sé, poteva favorire i desideri di vendetta personale ed esagerata. Gesù non la abroga ma la perfeziona invitando a perdonare le offese fatte alla nostra persona e ad abbandonare ogni spirito di vendetta o di difesa eccessiva. Resta, con ciò, fermo il principio di legittima difesa “vim vi repellere licet cum moderamine inculpatae tutelae/è lecito respingere la forza con la forza con una reazione proporzionata all’azione offensiva” perché Gesù non proibisce che ci si opponga agli attacchi ingiusti in maniera proporzionata. Per illustrare questo principio della legittima difesa senza eccessi, il Vangelo ci fornisce l’ esempio parabolico e paradossale del porgere l’altra guancia, da non prendersi alla lettera e che Gesù stesso non prese alla lettera quando fu ingiustamente percosso in casa di Anna.

La legge evangelica e i diritti naturali

San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (II-II, q. 64, a. 7) si chiede “se sia lecito uccidere per difendersi” e risponde che “dalla difesa personale derivano due effetti: il primo è la conservazione della propria vita; l’altro è l’uccisione dell’ingiusto aggressore. Orbene questa difesa è lecita, poiché con essa si vuole conservare la propria vita, il che è un istinto naturale in ogni essere vivente. Tuttavia, se la reazione fosse sproporzionata all’ aggressione o al fine della difesa che è il conservare la propria vita, sarebbe illecita. Quindi, se per difendere la propria vita si usa maggiore forza del necessario, ciò è illecito. Se invece si reagisce con moderazione o proporzione al fine e all’ aggressione da respingere, allora essa è lecita”.

Padre Tito Centi nel Commento alla Somma Teologica scrive: “Pur affermando di amare il prossimo con somma generosità, Cristo e gli Apostoli non intendono considerare peccaminoso l’esercizio dei diritti naturali dell’amore verso se stessi e della conservazione personale”.

Quindi il cristianesimo non solo non nega la legittima difesa personale, ma neppure che la guerra e la pena di morte possano essere giuste, in quanto esse sono il diritto di legittima difesa applicato alle Nazioni e alla Società civile che si difende dal delinquente il quale la distruggerebbe se lasciato in libertà[1] (S. Th., II-II, q. 40, a. 1).

Protus