La tomba di San Pietro e il primato di Roma

La Tradizione della Chiesa vuole che Pietro venne a Roma e vi morì martire durante la persecuzione di Nerone crocifisso a testa in giù, e fu sepolto in Vaticano, vicino al luogo del suo glorioso martirio. Sulla sua tomba, divenuta ben presto oggetto di venerazione, nel IV secolo sorse per volere di Costantino la prima Basilica vaticana.

Questa tradizione è stata confermata dalle indagini della scienza. La professoressa Margherita Guarducci  ha studiato profondamente la questione lavorando a partire dal 1952 nei sotterranei della Basilica Vaticana, riuscendo a decifrare gli antichi graffiti sotto l’Altare della Confessione nel 1958 ed infine a identificare le reliquie di S. Pietro nel 1964 (cfr. M. Guarducci, La tomba di Pietro. Una straordinaria vicenda, Rusconi, Milano, 1989; Le reliquie di Pietro in Vaticano, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995; Le chiavi sulla pietra, Piemme Casale Monferrato 1995; Il primato della Chiesa romana, Rusconi, Milano 1991). Ora «se Roma era il centro della Chiesa universale, il punto focale di questo centro era la tomba di Pietro» (M. Guarducci, La tomba di Pietro ..., cit., pag. 10).

In particolare due fonti, autorevolissime e assai vicine ai fatti narrati, provano che S. Pietro subì il martirio in Vaticano. Esse sono S. Clemente romano e Tacito.

Alla fine del I secolo S. Clemente papa, parlando della persecuzione di Nerone (64 d. C.), attesta che i Cristiani si raccolsero in quella occasione attorno agli Apostoli Pietro e Paolo per attingerne la forza necessaria a superare la prova (Epistola ai Corinzi, I, 5-6).

Il grande storico romano Tacito, verso la fine del II secolo, attesta che Nerone, dopo l’incendio di Roma (64 d. C.), essendo incolpato dalla voce popolare di averlo provocato, volle addossarne la colpa ai Cristiani e scatenò contro di essi una feroce persecuzione. Questa ebbe il suo epilogo, sempre secondo Tacito (Annali, XV, 44), nel Circo degli horti dello stesso Nerone in Vaticano, unico luogo di spettacoli rimasto a Roma dopo l’incendio del 64. Qui molti cristiani perirono.

 

Le principali fonti letterarie sulla tomba petrina

A Roma, durante il pontificato di papa Zefirino (199-217), un dotto ecclesiastico romano di nome Gaio polemizzò con Proclo, capo dei Montanisti romani. Poiché Proclo, per svalutare l’autorità della Chiesa romana, vantava la presenza in Asia minore di varie tombe famose dell’ età apostolica (la tomba dell’ apostolo Filippo e delle sue 4 figlie), Gaio oppose a quelle tombe i “trofei” o tombe gloriose degli Apostoli Pietro e Paolo, esistenti rispettivamente in Vaticano e sulla via Ostiense. Le parole di Gaio sono riportate da Eusebio da Cesarea (Storia ecclesiastica, II, 25, 7), il famoso storico della Chiesa, che scriveva nella prima metà del IV secolo.

S. Girolamo nel De viris illustribus, composto nel 392, afferma che Pietro fu sepolto in Vaticano e qui venerato dai fedeli di tutto il mondo. Inoltre nel Liber Pontificalis del VI secolo si legge che Pietro «fu sepolto sulla via Aurelia [...] presso il luogo ove fu crocefisso [...] in Vaticano».

Gli scavi sotto la Basilica

Il 28 giugno 1939 Pio XII impartì l’ordine di abbassare il pavimento delle Grotte vaticane per permettere all’archeologia di studiare la questione della tomba di Pietro. Era l’inizio di una straordinaria impresa. Gli scavi durarono una decina d’anni (1940-1949) e si conclusero alla vigilia dell’Anno Santo del 1950. La relazione ufficiale di essi uscì nel novembre 1951.

Gli scavi portarono alla scoperta, sotto la Basilica vaticana, di una vasta necropoli di epoca pagana con successivi elementi cristiani. L’ estrema zona Ovest della necropoli si trova sotto la cupola di Michelangelo, ossia sotto l’Altare della Confessione. Sotto questo altare, gli scavi rivelarono l’esistenza di una serie di monumenti sovrapposti. Cominciando dall’altare attuale (di Clemente VIII, 1594) e procedendo verso il basso, si trovano: l’altare di Callisto II (1123); l’altare di Gregorio Magno (590-604), che restò incluso nel successivo altare di Callisto; il monumento fatto costruire da Costantino ancor prima della Basilica (circa 321-326) e dentro il monumento costantiniano un’edicola funeraria (fine II - inizio III secolo): il cosiddetto “trofeo di Gaio” (M. Guarducci, Le reliquie di Pietro ..., cit., pp. 15 s.).

L’estremità Ovest della necropoli comprende un’area abbastanza vasta, chiamata dagli archeologi “Campo P”. Essa è delimitata da un muro, detto “Muro rosso” dal colore dell’intonaco che lo ricopriva. Al centro del “Muro rosso” è una nicchia semicircolare e un po’ più in alto un piccolo muro, chiamato “Muro g”, ricoperto sul lato nord da una selva di graffiti. Il “Muro rosso” con la nicchia semicircolare fa da sfondo al cosiddetto “Trofeo di Gaio”, la mensa votiva che i Cristiani innalzarono, nel II secolo, sulla tomba terragna nella quale era stato sepolto il corpo di S. Pietro nel 64. Tale “Trofeo” è detto di Gaio dal nome del presbitero romano (di cui abbiamo parlato sopra) del III secolo, il quale asseriva che la tomba di Pietro è a Roma in Vaticano.

Sotto il “Trofeo di Gaio”, gli archeologi nominati da Pio XII ritrovarono il luogo della sepoltura primitiva (tomba terragna), ma lo trovarono vuoto. Come mai? Ciò si spiega pensando che agli inizi del IV secolo Costantino fece costruire, sul luogo dell’antico “Trofeo di Gaio”, una grande Basilica a cinque navate, il cui altare maggiore era ubicato esattamente sopra la tomba dell’ Apostolo. Il medesimo Imperatore aveva già fatto raccogliere le ossa di S. Pietro dall’umida tomba terragna, e - avvolte in un prezioso tessuto di porpora e d’oro - le aveva fatte riporre in un asciutto e decoroso loculo marmoreo ricavato in un muro (il “Muro g”) che sorgeva accanto alla sepoltura primitiva. La parete nord del “Muro g” era coperta da una “selva selvaggia” di graffiti, fra i quali spiccavano anche i nomi di Cristo, di Maria e di Pietro, ma gli autori degli scavi non erano riusciti a decifrare quel groviglio di segni.

 

L’annuncio di Pio XII

Al termine dei lavori comunque i primi studiosi erano giunti a stabilire che i vari monumenti costruiti sopra l’Altare della Confessione per iniziativa di alcuni Papi poggiano tutti, sovrapponendosi, sull’antico monumento di Costantino. In breve gli scavi ordinati da Pio XII confermavano archeologicamente quanto già la tradizione insegnava: la tomba di S. Pietro si trova ancor oggi sotto l’Altare papale. Nel messaggio natalizio del 1950, il pontefice Pio XII, perciò, annunziò al mondo: «È stata veramente trovata la tomba di S. Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo: -Sì. La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata. Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute? Al margine del sepolcro furono trovati resti di ossa umane, dei quali però non è possibile provare con certezza che appartennero alla spoglia mortale dell’ Apostolo».

Si era dunque ritrovata con certezza la tomba di Pietro, ma non con altrettanta certezza le ossa del Santo. Il merito del rinvenimento e dell’identificazione di esse va attribuito principalmente a Margherita Guarducci, la quale, cominciando a interessarsi degli scavi vaticani, vi portò il metodo che da lungo tempo aveva adottato e raffinato, vale a dire quello della ricerca scientifica rigorosa, essendo da molti anni archeologa di professione e titolare di una cattedra universitaria.

Un salvataggio inconsapevole e un frammento scomparso

Le reliquie del Principe degli Apostoli non erano state ritrovate neppure nel loculo marmoreo del “Muro g” dove Costantino le aveva fatte riporre nel IV secolo (sulla destra del “Trofeo di Gaio”, innalzato nel II secolo sopra la sepoltura primitiva o tomba terragna, dove S. Pietro era stato sepolto nel 64 d. C.). Come mai?

Nel 1941, mentre monsignor Kaas, per controllare personalmente il procedere dei lavori, verso sera (a Basilica chiusa) faceva il solito giro d’ispezione nella zona degli scavi, accompagnato dal “sampietrino” Giovanni Segoni, notò che all’ interno del “Muro g”, in mezzo a vari detriti, affioravano alcune ossa umane. La loro presenza era sfuggita ai quattro studiosi che lavoravano agli scavi durante il giorno. Ma non sfuggirono all’occhio vigile ed attento del Monsignore tedesco. Per un senso di rispetto verso i resti dei defunti, Monsignor Kaas decise di separare le ossa dai detriti, e di farle mettere dal Segoni in una cassetta di legno che lo stesso Segoni e Monsignor Kaas depositarono in un magazzino delle grotte vaticane. «Con ciò [scrive la Guarducci] monsignor Kaas aveva salvato, pur non sapendolo, le reliquie di Pietro» (M. Guarducci, La tomba di Pietro …, cit., pag. 84).

Nel 1952 la professoressa Guarducci chiese di poter visitare gli scavi. Suo desiderio era vedere coi suoi occhi un’epigrafe che appariva in un disegno pubblicato dal gesuita padre Antonio Ferrua il 5 gennaio 1952 nella rivista “La Civiltà Cattolica” e il 16 gennaio nel quotidiano di Roma “Il Messaggero”. Si trattava di un disegno ricostruttivo dell’ edicola eretta in onore di S. Pietro nel II secolo. A destra era disegnata sul muro un’iscrizione greca: PETR / ENI. La Guarducci pensò che ENI potesse essere una forma contratta di ENESTI (“è dentro”), donde risultava la frase “Pietro è qui dentro, qui giace”.

 

Il ritrovamento e le indagini scientifiche sulle ossa di San Pietro

Era necessario, però, verificare se la frase continuasse verso destra, nel qual caso il senso poteva essere diverso. Quando, però, la professoressa, guidata dall’ing. Vacchini, poté visitare la zona degli scavi, rimase profondamente delusa: là dove l’iscrizione così interessante avrebbe dovuto trovarsi, c’era invece un largo squarcio nell’intonaco. Il frammento era stato trovato da Padre Ferrua, che per motivi oscuri se l’era portato nella sua cella finché, quando la cosa fu risaputa, per ordine di Pio XII dovette restituirlo al Vaticano nel 1955. La Guarducci poté studiarlo e vide così che la riga superiore dell’iscrizione inclinava verso il basso, impedendo la continuazione della seconda riga. Quindi la lettura ENI e la conseguente interpretazione della professoressa risultavano confermate. L’epigrafe acquistava perciò un grandissimo valore (M. Guarducci, Le reliquie ..., cit., pagg. 46-50).

 

Il ritrovamento e le indagini scientifiche sulle ossa di San Pietro

Intanto nel 1953, la Guarducci aveva cominciato a studiare i numerosissimi graffiti esistenti sul “Muro g”, che i precedenti studiosi erano riusciti a decifrare solo in minima parte. La Guarducci stessa racconta così la vicenda: «Mentre mi scervellavo per trovare una via dentro quella selva selvaggia [di graffiti, nda] mi venne in mente che forse mi sarebbe stato utile sapere se qualche altra cosa fosse stata trovata nel sottostante loculo, oltre i piccoli resti descritti dagli scavatori nella relazione ufficiale. Era, per caso, vicino a me Giovanni Segoni, da poco promosso a grado di “capoccia” dei sampietrini. A lui [...] rivolsi [...] la mia domanda, ed egli mi rispose senza esitare: “Sì, qualche altra cosa ci deve essere, perché ricordo di averla raccolta io con le mie mani. Andiamo a vedere se la troviamo”. Egli mi guidò allora verso il deposito dei materiali ossei [...]. Entrai dunque dietro il Segoni, per la prima volta, in quell’ambiente. Lì, fra casse e canestri pieni di materiali ossei e di altre cose varie, giaceva ancora al suolo la cassetta che più di dieci anni prima il Segoni stesso e Monsignor Kaas vi avevano deposta [...]. Un biglietto, infilato tra la cassetta e il coperchio, molto umido ma ancora perfettamente leggibile, dichiarava che quel materiale proveniva dal “Muro g”. Il Segoni mi disse di averlo scritto egli stesso [...]. Credetti opportuno e doveroso portare subito la cassetta nello studio dell’ingegner Vacchini e qui [...] la cassetta fu aperta e ne estraemmo il contenuto. Vi trovammo una certa quantità di ossa, di colore spiccatamente chiaro, frammiste a terra [...] frammenti d’intonaco rosso, piccolissimi frammenti di stoffa rossastra intessuta di fili d’oro [...]. Debbo dire [...] [continua la Guarducci] che già mi era balenata alla mente l’idea, ovvia del resto, che il loculo del “Muro g” fosse destinato in origine ad accogliere le reliquie di Pietro [...]. Allora però, davanti ai resti recuperati, io mi sentii fortemente scettica [...]» (Le reliquie …, cit., pagg. 85-87).

Come antropologo fu scelto il noto professor Venerando Correnti che studiò le ossa contenute nella cassetta. Ecco il risultato dei suoi studi: le ossa appartenevano ad un unico individuo, di sesso maschile e di robusta costituzione, la cui età oscillava tra i sessanta e i settanta anni; esse costituivano circa la metà dello scheletro e rappresentavano tutte le parti del corpo, tranne i piedi; alcune ossa presentavano tracce di colore rossastro che facevano pensare ad un tessuto che le avesse avvolte. Ora tutti questi elementi si adattavano alla perfezione a S. Pietro.

Frattanto, essendo purtroppo scomparso nel 1958 Pio XII, Giovanni XXIII prese in mano la questione della tomba e delle reliquie di Pietro, ma la Guarducci nota che «a lui [Giovanni XXIII, nda] però mancavano quell’innato impulso di amore verso Roma e la visione di quel vastissimo orizzonte culturale che avevano acceso in Pio XII uno straordinario interesse per i sotterranei della Basilica Vaticana» (Le reliquie …, cit.,  pag. 73). Nondimeno le ricerche continuarono. Tutti i dati scientifici fin allora raccolti, unitamente all’epigrafe “Pietro è qui dentro” del “Muro rosso”, fecero sì che la Guarducci potesse annunciare a Paolo VI il 25 novembre 1963 che, con grande probabilità, le reliquie di S. Pietro erano state finalmente ritrovate.

Intanto altre indagini scientifiche vennero estese al campo merceologico e chimico (condotte dalla professoressa Maria Luisa Stein e dal professor Paolo Malatesta dell’ Università “La Sapienza” di Roma) e portarono, per quanto riguardava i tessuti, ai seguenti risultati: si trattava di una stoffa finissima tinta di autentica e costosa porpora di murice; l’oro era autentico e finissimo: era lo stesso tipo di tessuto porporino intrecciato con oro nel quale venivano avvolti i corpi degli Imperatori!

Tutto ciò confermava che il corpo sepolto nella tomba terragna e poi avvolto in porpora ed oro dentro il loculo costantiniano era quello del Principe degli Apostoli San Pietro! Anche la terra incrostata alle ossa fu sottoposta ad esame petrografico dai professori Carlo Lauro e Giancarlo Negretti: si trattava di sabbia marnosa del tutto simile alla terra del “Campo P”, il che confermava la provenienza di quelle ossa dal loculo interrato o tomba terragna che giaceva sotto il “Trofeo di Gaio” del II secolo.

 

L’annuncio di Paolo VI

A conclusione di tali accertamenti e di altri ancora, compiuti negli anni seguenti da altri scienziati, Paolo VI, il 26 giugno 1968, annunciò ai fedeli che le ossa di S. Pietro erano state ritrovate ed identificate.

Tuttavia nel discorso di Paolo VI la Guarducci trovò delle reticenze, inesattezze e contraddizioni, dovute al vecchio pregiudizio anti-romano ed anti-petrino e al nuovo spirito ecumenico del subsistit in. Infatti il testo suona così: «Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche [...] abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi [...] resti mortali del Principe degli Apostoli». La Guarducci commenta: «La frase [...] è poco aderente al vero. Nel giugno del 1968, le ricerche e le verifiche erano oramai praticamente esaurite. Tutto era stato chiarito [...]. Inoltre non era esatto definire le reliquie dell’Apostolo come “pochi ... resti” [...] esse erano, al contrario, relativamente molto abbondanti: in complesso circa metà dello scheletro. Questo [...] fu l’annuncio di Paolo VI: un annuncio se non perfetto, almeno però in quel momento sufficiente, anzi provvidenziale» (Le reliquie …, cit., pag. 118).

Il 27 giugno 1968 le reliquie di S. Pietro furono solennemente riportate con un rogito notarile nel loculo del “Muro g”, dove Costantino le aveva fatte deporre nel IV secolo e donde ventisette anni prima monsignor Kaas le aveva inconsapevolmente tolte, salvandole dalla probabilissima dispersione.

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