I testi del Concilio Vaticano II sono accettabili nella loro quasi totalità?

In molti punti gli eretici sono con la Chiesa, in qualche altro no; ma, a causa di questi pochi punti in cui si separano dalla Chiesa, non serve loro a nulla di essere con Essa in tutto il resto” (S. Augustinus, In Psal. 54, n. 19; PL 36, 641).

 

L’integrità della Fede

Durante e dopo la tempesta del Concilio Vaticano II furono molti gli scritti sulla sua opposizione alla Tradizione della Chiesa (card. Alfredo Ottaviani, card. Antonio Bacci, card. Arcadio Larraona, card. Giuseppe Siri, card. Ernesto Ruffini, sua ecc.za Dino Staffa, sua ecc.za Antonio de Castro Mayer, sua ecc.za Marcel Lefebvre, sua ecc.za Luigi Carli, mons. Klaus Gamber, dr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira, dr. Romano Amerio, dr. Michel Davies, mons. Francesco Spadafora, p. Cornelio Fabro, p. Michel Guérard des Lauriers, sino ai recenti studi di mons. Brunero Gherardini).

Questi eminenti teologi chiedevano di correggere o addirittura di abrogare gli errori e le ambiguità che avevano rilevate nei testi del Concilio e nella “Messa del Concilio” promulgata da Paolo VI nel 1969. Ma la risposta non è mai stata data a partire da Paolo VI sino a Benedetto XVI, che ha fatto della ermeneutica della continuità il suo cavallo di battaglia. Si è soltanto affermato senza provarlo che vi è continuità tra Vaticano II e Tradizione apostolica.

Anche l’ultimo grande teologo (Brunero Gherardini), che ha riproposto tali domande sul Concilio a papa Benedetto XVI dal 2009 al 2012, è rimasto senza nessuna risposta ed ha continuato a sospendere il suo assenso agli insegnamenti “pastorali” dubbi del Vaticano II.

Sennonché proprio nell’ambiente tradizionalista, che aveva combattuto le deviazioni modernistiche dei testi conciliari in maniera aperta e sistematica, in questi ultimi anni (2009) si è iniziato ad annacquare la propria resistenza affermando che la maggior parte del Concilio è accettabile.

Ora l’ultimo Concilio presenta, come vedremo, dei punti assai controversi che cadono sotto varie censure teologiche e pertanto la suddetta affermazione non ha senso perché l’integrità della Fede esige che essa va insegnata ed accettata senza sconti di percentuale anche minime. “Gli Ariani, i Montanisti, i Quartodecimani, gli Eutichiani – scrive Leone XIII – non avevano abbandonata in tutto la dottrina cattolica, ma solo in questa o quella parte, e tuttavia è cosa certa che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa” (Satis Cognitum)[1].

Inoltre i moralisti (S. Alfonso de’ Liguori, Prümmer, Merkelbach, Noldin, Ramirez, Roberti-Palazzini…) insegnano che si è obbligati, per Comando divino, a professare pubblicamente la Fede, quando il tacere o il tergiversare implica una negazione diretta o indiretta della Fede. Perciò di fronte alle ambiguità e agli errori del Concilio Vaticano II non si può tacere, ma occorre far notare a chi di dovere la discrepanza con la Tradizione apostolica.

 

Negazione di una dottrina comune e definita

La Costituzione dogmatica su “La Divina Rivelazione” Dei Verbum del Vaticano II accantona la dottrina definita dal Concilio Tridentino e dal Vaticano I sulle “due Fonti” della Rivelazione (Tradizione e S. Scrittura), per far convergere la Tradizione e il Magistero nella sola Scrittura. Soprattutto nel paragrafo 10 della Dei Verbum il precedente Magistero dogmatico e infallibile è spazzato via all’insegna d’una radicale ed insostenibile unificazione di Scrittura, Tradizione e Magistero. La Dei Verbum, pertanto, altera una verità di fede definita dal Concilio Tridentino e dal Vaticano I.

Per quanto riguarda la Tradizione la “Dei Verbum” rigettò lo schema della Commissione preparatoria “De fontibus Revelationis”, approntato sotto la direzione del card. Ottaviani e che riprendeva le definizioni dogmatiche, infallibili ed irreformabili, del Concilio Tridentino e Vaticano I e ciò per poter annacquare il peso della Tradizione a vantaggio della sola Scrittura, in vista del dialogo ecumenico col protestantesimo, che aborrisce la Tradizione. Col Vaticano II, infatti, non si parla più di duplice fonte della Rivelazione (S. Scrittura e Tradizione) e si insiste sull’aggettivo “vivente” quando si nomina la Tradizione per poter far dire alla Scrittura tutto e il contrario di tutto nell’ottica del libero esame soggettivistico luterano, avendo con detto aggettivo accantonato l’interpretazione autentica del Libro sacro data dai Padri e dal Magistero, alla quale ha il dovere di conformarsi l’esegesi cattolica. Si misura, infine, la Tradizione in base alla Scrittura: tutto ciò che non è scritto non può essere ritenuto come vero.

In breve è stata ribaltata la dottrina comune e definita della insufficienza della sola Scrittura nei confronti della Tradizione. Col Tridentino e il Vaticano I la Tradizione era accolta perché proveniente da Gesù e dagli Apostoli, col Vaticano II (‘DV’) è accolta se sono i teologi a riconoscere tale provenienza fondandosi sulla Scrittura, omologata alla Tradizione. La distinzione tra le due fonti, invece, è stata ribadita anche dopo il Vaticano I da S. Pio X nel Decreto Lamentabili (1907) e poi da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos (1928).

Quanto ai rapporti tra Tradizione e S. Scrittura è dottrina comune che la Tradizione è più ricca della sola Scrittura in antichità (anche la Scrittura, prima di essere scritta, fu Tradizione, in quanto trasmetteva oralmente la predicazione di Cristo e degli Apostoli, in pienezza (in quanto la Tradizione contiene tutte le verità per sé rivelate mentre la Scrittura no) e in sufficienza (poiché la Scrittura ha bisogno della Tradizione per stabilire la sua autorità)[2]. Per il protestantesimo, invece, l’ unica fonte della Rivelazione è la S. Scrittura, onde la sola nozione di Tradizione orale e di magistero quale canale trasmettitore di essa è inconcepibile.

Contro i protestanti la Chiesa ha definito infallibilmente nel Concilio di Trento (sessione IV del 6 aprile 1546; DB, 783) e nel Concilio Vaticano I (DB, 1787) 1°) che esistono insegnamenti o Tradizioni divino-apostoliche concernenti la fede e la morale 2°) trasmesse ininterrottamente tramite il magistero della Chiesa 3°) assistita da Dio. Se manca una sola di queste tre condizioni la tradizione è solo umana e quindi fallibile.

Inoltre sempre il Tridentino ha definito contro il protestantesimo (sessione IV; DB 783) che la fede e la morale “è contenuta tanto nei Libri Sacri scritti [sotto divina ispirazione], quanto nella Tradizione non scritta” e che bisogna “ricevere con pari amore di pietà e riverenza” sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione (DB 738; ripreso dal Vaticano I; DB 1787).

Asserire, pertanto, che il testo della Dei Verbum – come l’insieme del Concilio Vaticano II – è sia pure in minima parte accettabile è già almeno un errore teologico oggettivo

 

Una dottrina estranea alla Tradizione e già condannata dalla Chiesa

Per quanto riguarda la Costituzione dogmatica su “La Chiesa” Lumen gentium, occorre sapere che la Dottrina della Chiesa è quella che la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: di questa Dottrina la collegialità non fa parte. Anzi la Collegialità episcopale[3] è stata costantemente condannata dal Magistero ecclesiastico sino a Pio XII, il quale, ancora tre mesi prima di morire, nell’ enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958) ribadì per la terza volta, dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che la giurisdizione viene ai vescovi tramite il Papa. Il gallicanesimo o conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico e quindi all’insieme dei Vescovi una funzione suprema eguale, se non superiore, a quella del Papa.

Storico è lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe Frings con Ottaviani sulla collegialità. Ottaviani rispose a Frings che “chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i vescovi] che debbono dirigere Pietro, ma è Pietro che deve guidare le pecore [i vescovi] e gli agnelli [i fedeli]”.

La dottrina sulla ‘collegialità’ venne attaccata anche dalla rivista diretta da mons. Antonio Piolanti “Divinitas” n. 1 del 1964 tramite due articoli, l’uno di mons. Dino Staffa e l’altro di mons. Ugo Emilio Lattanzi (che citava, confutandolo, anche l’allora teologo J. Ratzinger), i quali articoli vennero fatti distribuire in Concilio sotto forma di estratti dal card. Ottaviani.

La Nota explicativa praevia (messa, però, in coda alla Costituzione) fu dovuta, secondo Alberigo (che cita come fonti mons. Prignon, Suenens, mons. Charue, mons. Gerard Philips e mons. Carlo Colombo), al fatto come egli scrive, che «da due mesi a questa parte Paolo VI ha subito una fortissima pressione da parte dell’estrema destra. Sembra che si sia arrivati al punto di minacciare di far saltare il Concilio nel caso passasse il testo votato sulla Collegialità. Lo si è accusato come dottore privato di inclinare verso l’ eresia»[4]. In realtà il 18 ottobre 1964 fu inviata una nota personalmente riservata a Paolo VI, curata dal card. Larraona e firmata da parecchi Cardinali e Superiori Generali. Nella nota fra l’altro si legge: «sarebbe nuovo, inaudito e ben strano che una dottrina [la collegialità episcopale], la quale prima del Concilio era tenuta come meno comune, meno probabile, meno seria e meno fondata, passasse improvvisamente […] a divenire più probabile, anzi certa o addirittura matura per essere inserita in una Costituzione dogmatica. Questo sarebbe cosa contraria ad ogni norma ecclesiastica, sia in campo di definizioni infallibili pontificie sia di insegnamenti conciliari anche non infallibili. […] lo schema [sulla collegialità] cambia il volto della Chiesa; infatti a) la Chiesa diventa da monarchica episcopale e collegiale, e ciò per diritto divino  e in virtù della consacrazione episcopale. b) Il Primato [papale] resta intaccato e svuotato. […] il Pontefice romano non è presentato come la Pietra sulla quale poggia tutta la Chiesa di Cristo (gerarchia e fedeli); non è descritto come il Vicario di Cristo che deve confermare e pascere i suoi fratelli; non è presentato come colui che solo ha il potere delle chiavi. […]. La Gerarchia di Giurisdizione, in quanto distinta dalla Gerarchia di Ordine, […] viene scardinata. Infatti, se si ammette che la consacrazione episcopale porta con sé non solo le Potestà di Ordine […] ma anche, per diritto divino, tutte le Potestà di Giurisdizione, di magistero e di governo non solo nella Chiesa propria ma anche nella Chiesa universale, evidentemente la distinzione oggettiva e reale tra Potere d’Ordine e Potere di Giurisdizione, tra Gerarchia di Ordine e di Giurisdizione diventa artificiosa, capricciosa e paurosamente vacillante. E tutto ciò – si badi bene – mentre tutte le fonti, le dichiarazioni dottrinali solenni, tridentine e posteriori, la disciplina fondamentale, proclamano questa distinzione essere di diritto divino. […]. Se la dottrina [della collegialità] proposta nello Schema fosse vera, la Chiesa avrebbe vissuto per molti secoli in diretta opposizione al diritto divino […]. Gli ortodossi e i in parte i protestanti avrebbero dunque avuto ragione nei loro attacchi contro il Primato»[5].

Come si vede, la collegialità episcopale fu tacciata di contraddire la dottrina costante e definita della Chiesa e di favorire l’eresia da numerosi e valenti cardinali e teologi già durante il Concilio Vaticano II. Per cui non si riesce a vedere quale minima parte di essa sia accettabile.

 

Dal culto di Dio al “culto dell’ uomo”

Altro punto di rottura con la dottrina tradizionale è l’ antropocentrismo della Costituzione pastorale  Gaudium et spes su “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (n. 24, §4): «l’uomo è in terra la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa (“propter se ipsam”)». Mentre San Pio X voleva “instaurare omnia in Cristo, ricentrare tutto in Cristo”, Gaudium et spes vuol “instaurare omnia in homine; ricentrare tutto nell’uomo”. Essa è tutta orientata in direzione dell’uomo e protesa ad abbassare Cristo al livello del puramente naturale, disarcionandolo dal trono della sua Divinità. Quale rottura più radicale di questa?

La dottrina cattolica tradizionale riassunta nel “Catechismo di San Pio X” insegna che «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e goderlo poi nell’altra in Paradiso». La dottrina del Concilio Vaticano II, invece, sostituisce l’adorazione della creatura a quella del Creatore e tutto orienta all’ esaltazione della dignità pressoché infinita della persona umana, smentendo, come osserva R. Amerio, «il solenne passo di Prov. 16, 4: “Universa propter  Se metipsum operatus est Deus”, “Il Signore ha fatto tutte le cose per Se stesso”» (Iota Unum, cap. XXX).

A ragione ci si chiede come si possa sostenere, senza rotture con la S. Scrittura, con la Tradizione apostolica e con la retta ragione, l’affermazione che l’uomo “è in terra la sola creatura che Dio abbia creata per se stessa”.

Mons. Brunero Gherardini (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011, p. 36, nota 3) commenta: «È un testo assurdo e blasfemo. […]. Il “per se stessa” sovverte i valori, sottoponendo il Creatore alla creatura». E Romano Amerio: “La centralità finalistica dell’ uomo è conforme allo spirito dell’ uomo contemporaneo, ma non ha fondamento alcuno nella religione, la quale ordina tutto a Dio e non all’uomo” (ibidem). Insomma Dio diventa il tributario dell’uomo, un suo sottoposto e l’uomo il valore primario[6]. Come si vede l’ antropocentrismo rende il Concilio e la Gaudium et Spes totalmente inaccettabili.

 

Una Dichiarazione in contraddizione con la S. Scrittura, i Santi Padri e il Magistero

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[1]Note e censure teologiche: le note indicano la qualità e il grado di certezza delle proposizioni teologiche; le censure rappresentano il corrispondente negativo delle note, ossia se qualcuno nega tale nota incorre in tale censura. Le verità formalmente rivelate sono attestate direttamente da Dio in materia di fede e di costumi (per se rivelate) e questo è l’oggetto primario, immediato e diretto dell’infallibilità. Le verità virtualmente rivelate sono dedotte dalla Rivelazione (ossia dal formalmente rivelato) tramite un ragionamento oppure sono un presupposto della stessa. Esse si chiamano anche conclusioni teologiche e sono oggetto secondario dell’infallibilità (infatti, sono raggiunte indirettamente dall’atto infallibile tramite l’oggetto primario o rivelato formale). Benché non siano rivelate in sé, tuttavia hanno una connessione necessaria con la Rivelazione. A partire da una premessa formalmente rivelata, tramite una verità naturalmente certa, si arriva a conclusioni legittime, necessariamente e teologicamente certe. Se queste vengono negate, ne segue la negazione indiretta della Rivelazione.  Infatti la verità ottenuta mediante la ‘conclusione’ del sillogismo (da una ‘premessa maggiore’ di fede e una ‘premessa minore’ di ragione), anche se non è espressa per sé nella Rivelazione, vi è contenuta, però, virtualmente come l’effetto è contenuto nella causa.

Le verità formalmente rivelate sono da credersi di fede divina cioè per l’autorità di Dio rivelante; la loro negazione è (almeno materialmente) eresia, con un conseguente peccato mortale (almeno materiale) direttamente contro la fede. Le verità di fede divina definita sono non solo formalmente rivelate, ma anche proposte a credere dal magistero della Chiesa. La loro negazione è eresia manifesta con conseguente peccato mortale direttamente contro la fede e in più con pena canonica (anatema sit). Tutti i teologi insegnano che le verità formalmente rivelate sono da credersi di fede divina anche senza l’ulteriore dichiarazione o definizione infallibile della Chiesa (che le rende verità di fede divina e definita); la dichiarazione della Chiesa può esservi ma non è necessaria. Il Concilio Vaticano II, come vedremo, nega, almeno materialmente, verità che Dio ha rivelato direttamente ed anche verità contenute virtualmente nel Depositum fidei nonché verità che sono dottrina comune della Chiesa (sentenze certe) la cui negazione è temeraria con conseguente peccato mortale di disubbidienza all’insegnamento del magistero ordinario (cfr. Sisto Cartechini, De valore notarum theologicarum, Roma, 1951).

[2] M. Cano, De locis theologicis lib XII, Venezia, 1799, p. 4.

[3] Durante il Concilio Vaticano II «la dottrina che attribuiva al Collegio dei vescovi (del quale il singolo entra a far parte con la consacrazione episcopale) unito al suo capo, il Papa, potere e responsabilità sulla Chiesa intera» era ritenuta da Siri, Staffa, Carli, Parente e molti altri «recante detrimento al potere primaziale del Papa ed essi contestavano che avesse solide basi nella S. Scrittura» (H. Jedin, Breve storia dei concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 240). Inoltre si riteneva che «il vescovo consacrato diventi per ciò stesso membro del Collegio episcopale, che assieme al Papa e mai senza esso possiede la suprema potestà sopra tutta la Chiesa» (ibidem, p. 243). La ‘Nota explicativa praevia’ «nulla toglie alla dottrina della immediata origine divina [e non tramite il Papa] dell’ufficio e del mandato episcopale, nonché della responsabilità del Collegio episcopale per la Chiesa universale [e non sulla sola diocesi del singolo vescovo]» (ibidem, p. 265). Invece la dottrina tradizionale, ribadita ancora nel 1958 da Pio XII, insegna che la giurisdizione sulla sua singola diocesi giunge al vescovo da Dio tramite il Papa, il quale dopo la consacrazione gli dà il potere di giurisdizione che è perciò realmente distinto dal potere d’ordine. Inoltre il Papa, se vuole, può far partecipare il Corpo dei vescovi (non il Collegio che fu solo quello degli Apostoli) alla sua suprema potestà di magistero e d’impero sulla Chiesa universale, riunendoli in Concilio ecumenico, e ciò per il solo tempo della durata del Concilio. Quindi il Corpo dei vescovi non è un ceto stabile e permanente che con Pietro e sotto Pietro ha il supremo potere di magistero ed impero sulla tutta la Chiesa. Come si vede la Collegialità è strettamente imparentata, anche se in maniera più sfumata o mitigata, al conciliarismo e al gallicanesimo teologico.

[4] Nastro registrato spedito da mons. Albert Prignon al card. Suenens, fine giugno 1964, F-Prignon, 828, cit. in G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. La Chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna, Il Mulino, 1999, vol. IV, p. 86, nota 216.

[5] Cit. in M. Lefebvre, J’accuse le Concile, Martigny, Ed. Saint Gabriel, 1976, pp. 89-98.

[6] Durante “l’omelia nella 9a Sessione del Concilio Vaticano II”, il 7 dicembre 1965, papa Montini giunse a proclamare: «la religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Tale poteva essere; ma non è avvenuto. […]. Una simpatia immensa verso ogni uomo ha pervaso tutto il Concilio. Dategli merito almeno in questo, voi umanisti moderni, che rifiutate le verità, le quali trascendono la natura delle cose terrestri, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, più di tutti, abbiamo il culto dell’uomo».

Attenzione! “Tutto il Concilio”, dice Paolo VI, non gran parte di esso, non il solo ‘spirito del Concilio’. Il “problema dell’ora presente” è propriamente la velleità di conciliare l’inconciliabile: teocentrismo e antropocentrismo, Messa romana e ‘Novus Ordo Missae’ o “Messa del Concilio”, Tradizione divino-apostolica e Vaticano II.

Giovanni Paolo II nella sua seconda enciclica (1980) “Dives in misericordia” n. 1 afferma: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’ antropocentrismo, la Chiesa [conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio». Papa Wojtyla qui dimentica o ignora il Magistero della Chiesa che, come S. Pio X nell’enciclica Supremi Pontificatus, ha denunciato l’ antagonismo tra lo spirito dell’uomo moderno, che riferisce tutto a sé (antropocentrismo) e il principio cattolico che riferisce tutto a Dio (teocentrismo)».

Nel 1976 da cardinale, predicando un ritiro spirituale a Paolo VI e ai suoi collaboratori, pubblicato in italiano sotto il titolo Segno di contraddizione. Meditazioni, (Milano, Vita e Pensiero, 1977), Karol Wojtyla iniziò la meditazione “Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo” (cap. XII, pp. 114-122) con Gaudium et spes n°. 22 asserendo: «il testo conciliare, applicando a sua volta la categoria del mistero all’uomo, spiega il carattere antropologico o perfino antropocentrico della Rivelazione offerta agli uomini in Cristo. Questa Rivelazione è concentrata sull’uomo […]. Il Figlio di Dio, attraverso la sua Incarnazione, si è unito ad ogni uomo, è diventato - come Uomo - uno di noi. […]. Ecco i punti centrali ai quali si potrebbe ridurre l’insegnamento conciliare sull’uomo e sul suo mistero» (pp. 115-116). In breve questo è il succo concentrato dei testi del Vaticano II: culto dell’uomo, panteismo e antropocentrismo idolatrico.