La nuova messa è in rottura con la tradizione liturgica apostolica? 3a parte

MODIFICHE APPORTATE NEL 1970 AL «NOVUS ORDO»

Nel maggio del 1970 venne pubblicata l’edizione latina del nuovo Messale romano. All’Institutio e all’ “Ordo” del 1969 erano stati apportati numerosi cambiamenti, che analizzeremo nel presente capitolo.

La riforma del Messale romano promulgato nel 1969, secondo una dichiarazione di Paolo VI[1], non era stata improvvisata, ma era statoil risultato di lunghi ed approfonditi studi”. Sulla base di questa dichiarazione si può essere sicuri che in essa non vi era alcuna proposizione che non fosse stata accuratamente soppesata non solo dal punto di vista teologico, ma, viste le preoccupazioni essenzialmente pastorali di questo pontificato, anche dal punto di vista pastorale, che applica ai casi concreti le regole generali o i princìpi. È per questo che si rimane sorpresi nel vedere come nel 1970, appena un anno dopo la loro promulgazione, l’Institutio e l’Ordo abbiano subìto numerose modifiche sia dal punto di vista teologico, sia dal punto di vista pastorale.

 

Il Proemio dell’«Institutio»

In un articolo pubblicato dalla rivista Notitiæ, organo della ‘Sacra Congregazione per il Culto Divino’, il segretario di questa Congregazione, Padre Annibale Bugnini, scriveva: “Il proemio è interamente nuovo e particolarmente lungo […]. Esso insiste su tre concetti: a) la storia del Messale romano; soprattutto da dopo il Concilio di Trento fino al Concilio Vaticano II: al fine di giustificare le modifiche introdotte nel Messale secondo le indicazioni dell’ultimo Concilio ecumenico; b) la fedeltà teologica e rituale dell’uno e dell’altro Messale alla dottrina della Chiesa; c) i criteri che hanno presieduto alla riforma”[2].

Questo proemio manifesta in realtà la preoccupazione di enunciare alcuni punti di dottrina cattolica che difettavano nellInstitutio del 1969, o che non vi erano correttamente spiegati. Esso insiste, infatti, sul principio del ‘sacerdozio ministeriale’ del celebrante; fa allusione alla presenza reale di Nostro Signore nell’ Eucaristia e alla transustanziazione; contiene numerose citazioni del concilio di Trento; afferma a più riprese che la Messa è un Sacrificio; dichiara che essa contiene il rinnovamento sacramentale del Sacrificio della croce; in un articolo dice esplicitamente che la Messa è un Sacrificio Propiziatorio; dichiara a più riprese la sua intenzione di mantenersi fedele alla Tradizione apostolica, (come si vede “il Concilio letto alla luce della Tradizione” [1979] e “l’ermeneutica della continuità” [2005] non hanno inventato niente di nuovo).

Dalla lettura superficiale di questi passi del proemio si potrebbe essere portati a credere che esso corregge tutte le imprecisioni, le insufficienze e le deviazioni dottrinali rilevate nella nuova Messa. Tuttavia un attento studio di questi stessi passi, come di altri articoli del proemio e dell’Institutio nella sua attuale edizione, sfortunatamente non giustifica questa favorevole impressione: le modifiche introdotte non apportano nessun ‘cambiamento sostanziale’ alle osservazioni fatte in precedenza a proposito del Novus Ordo.

 

Il “sacerdozio” del popolo

A dire il vero, negli stessi passi di sapore tradizionale, dove il proemio afferma dei punti precedentemente passati sotto silenzio o espressi in modo dubbio, incontriamo delle formulazioni del tutto insufficienti, anch’esse soggette a importanti riserve. Vediamo qualche esempio.

L’articolo 5 del proemio è di una gravità enorme: “Questa natura del sacerdozio ministeriale mette a sua volta nella giusta luce un’altra realtà di grande importanza: il sacerdozio regale dei fedeli, il cui Sacrificio raggiunge la sua perfezione attraverso il ministero dei presbiteri, in unione con il Sacrificio di Cristo, unico Mediatore. La celebrazione dell’Eucaristia è infatti azione di tutta la Chiesa. Questo popolo è il popolo di Dio, acquistato dal Sangue di Cristo, riunito dal Signore, nutrito con la sua Parola; popolo la cui vocazione è di far salire verso Dio le preghiere di tutta la Famiglia umana; popolo che, in Cristo, rende grazie per il mistero della salvezza offrendo il suo Sacrificio; popolo infine che, per mezzo della comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, rafforza la sua unità. Questo popolo è già santo per la sua origine, ma, in forza della sua partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa al mistero eucaristico, progredisce continuamente in santità”[3].

Se consideriamo attentamente i termini di questo articolo 5, vediamo che essi affermano nuovamente, e in maniera chiara, la concezione del Sacerdozio del popolo in senso stretto, che abbiamo precedentemente segnalata come in rottura con la Tradizione apostolica. Infatti anche nella correzione del 1970 il popolo santo è ancora chiamato a “far salire verso Dio le preghiere di tutta la famiglia umana” e “rende grazie per il mistero della salvezza, offrendo il suo [di Cristo] Sacrificio”. Come si può vedere, ritorniamo alle stesse imprecisioni ed ambiguità che già esistevano nel precedente testo dell’Institutio del 1969. In effetti, benché si possa dire, in senso lato e per analogia, che i semplici fedeli “fanno salire verso Dio le preghiere” degli altri, e che “offrono il Sacrificio di Cristo”, queste stesse espressioni, in senso stretto, indicano solo la missione specificamente sacerdotale del celebrante. Infatti i fedeli, tramite il sacerdote che offre la Messa, uniscono ad essa le loro intenzioni, che sono presentate a Dio dal sacerdote, il quale esercita la sua duplice mediazione tra Dio e l’uomo: a) ascendente, per far salire a Dio le richieste dei fedeli; b) discendente, per far discendere sui fedeli le grazie divine.

Inoltre questo passo stabilisce una strana distinzione tra il “popolo di Dio” e la “famiglia umana”, poiché in esso si dice che il primo, attraverso l’azione sacerdotale che esercita nella Messa, fa salire verso Dio le preghiere “di tutta la famiglia umana”. Presa nel suo senso ovvio, questa espressione indica che il “popolo di Dio” esercita una funzione di mediazione propriamente sacerdotale fra tutta l’umanità (compresi i non-cattolici, i non-cristiani, gli atei, ecc…) e Dio. Di più: giacché l’espressione che segue immediatamente attribuisce allo stesso “popolo di Dio” la facoltà di “offrire il Sacrificio di Cristo”, sembra proprio che, attraverso la Messa, siano presentate e rese gradite a Dio le preghiere di tutti gli uomini, incluse le preghiere dei non-cattolici, dei non-cristiani, dei politeisti, degli atei, ecc. Una  tale concezione della Messa è tanto più strana in quanto si accorda con un certo ecumenismo eterodosso che già allora si stava diffondendo in importanti strati del pubblico cattolico e che deriva dal concetto della “Messa sul mondo” di Teilhard de Chardin.

San Tommaso d’Aquino in linea con la Tradizione nella ‘Somma Teologica’ insegna riguardo agli “effetti dell’Eucarestia” che “come la Passione di Cristo può giovare a tutti, quanto alla remissione del peccato, ma non ha effetto in atto se non per quelli che sono uniti alla Passione di Cristo per la Fede e la Carità; così il Sacrificio della Messa ha effetto solo per coloro che si uniscono a questo Sacramento mediante la Fede e la Carità […]. S. Agostino scrive: ‘Il Sacrificio di Cristo è offerto per coloro che sono membra di Cristo’ (De anima, Lib. I, cap. 9). Onde nel Canone della Messa non si prega per coloro che sono fuori la Chiesa. Tuttavia può giovare potenzialmente loro [predisponendoli alla conversione] tanto quanto grande è la loro disposizione” (S. Th., III, q. 79, a. 7, ad 2).

 

Il ritorno alle norme dei Santi Padri o l’«ermeneutica della continuità»

Gli articoli dal 6 al 9 del proemio affermano senza dimostrarlo che il nuovo “Ordo Missæ” non si oppone ai princìpi cattolici tradizionali, e in particolare a quelli enunciati a Trento, ma piuttosto li conferma. Per difendere questa tesi, il documento adduce che il Concilio Vaticano II ha ordinato che i riti vengano “riportati alla antica Tradizione dei santi Padri”[4] , espressione questa che, ipsis litteris, si trova nella Costituzione apostolica Quo primum tempore, con la quale San Pio V restaurò e promulgò il Messale Romano-tridentino (13 luglio 1570). Agli autori del proemio questo punto di esteriore somiglianza è parso sufficiente per dimostrare che il nuovo Messale segue la stessa Tradizione apostolica di quello restaurato, non fatto ex novo, da San Pio V; e questo convincimento sembra talmente radicato che, nelle righe successive, non ci si preoccupa di dimostrare che la nuova Messa è in accordo con gli insegnamenti tridentini, ma ci si accontenta di dichiarare che l’Ordo di Paolo VI è riuscito a “ristabilire l’antica Tradizione dei santi Padri” in modo più perfetto dello stesso Ordo di San Pio V. Ora “quod gratis affirmatur, gratis negatur”. Perciò le affermazioni precedenti del proemio a riguardo della transustanziazione, del carattere sacrificatorio e propiziatorio della Messa, ecc., restano solo verbali senza nessuno sforzo per dimostrare che questi princìpi non sono contraddetti dai passi della nuova Messa segnalati come contrari alle dottrine di Trento. Insomma, si insiste su un ‘elemento estrinseco: l’ intenzione affermata, ma non dimostrata, di ristabilire i riti secondo le norme dei santi Padri. È una sorta di “argomento ontologico” il quale dall’ idea dell’esistenza di Dio passa ipso facto alla Sua esistenza reale. Ora il passaggio è indebito poiché tra il pensare una cosa e il produrla nella realtà vi è una distanza infinita, che può essere colmata solo dall’ Onnipotenza creatrice divina. Non basta, dunque, dire che vi è continuità tra ‘Nuova Messa’ e ‘Messa apostolica’ affinché questa continuità esista realmente. Le affermazioni vanno dimostrate, cosa che nel caso della ‘Nuova Messa’ e del ‘Concilio Vaticano II’ non è stata fatta, perché ci si è contentati di affermare la continuità con la Tradizione liturgica e dogmatica senza prendersi cura di provarla.

Come monsignor Gherardini riguardo all’«ermeneutica della continuità» rilanciata da Benedetto XVI nel 2005 sul Concilio Vaticano II ha constatato recentemente che la  Tradizione dogmatica è solo affermata ma non dimostrata; così monsignor De Castro Mayer e il dr. Da Silveira avevano notato nel 1970 la stessa incongruenza tra le affermazioni e i fatti riguardo alla continuità tra la nuova Messa e la Tradizione liturgico-apostolica.

Infatti come è possibile dimostrare che la Messa di Paolo VI ha obbedito realmente e non solo verbalmente all’intenzione, di essere fedele alla tradizione come quella di San Pio V ed anzi più di essa? Le differenze tra le due Messe ‘celebrate’ sono così evidentemente grandi che balzano agli occhi e alle orecchie di chi assiste all’una e all’altra Messa; esse si vedono e si sentono e, se nessuno osa dire che “il re è nudo”, lo “grideranno le pietre”. Le differenze si mostrano e non hanno bisogno di essere dimostrate (altare al muro/altare verso il popolo; recitazione a bassa voce/lettura con microfono ad alta voce; lingua latina/lingua vernacolare; comunione in ginocchio e in bocca/comunione in piedi e sulle mani; canto gregoriano/musica yé-yé…); mentre i Documenti ‘scritti’ del Concilio non si vedono né si sentono, ma debbono essere studiati e non tutti hanno la capacità di evincerne con chiarezza la rottura con la Tradizione apostolica.

Inoltre come è stato possibile che la medesima intenzione (per il Novus Ordo solo affermata ma non dimostrata) di ristabilire i riti secondo le norme dei Padri della Chiesa abbia condotto a due modi così differenti di celebrare ed assistere alla Messa: uno verticale e teocentrico, l’altro orizzontale e antropocentrico?

D’altronde Pio XII condanna coloro che, “per adottare nuovamente alcuni antichi riti e cerimonie”[5], finiscono col “far rinascere gli eccessivi ed insani arcaismi creati dall’ illegittimo conciliabolo di Pistoia e […] col rinnovare i molteplici errori che prepararono e che seguirono questo conciliabolo”[6] . Sulla stessa linea, dom Guéranger denuncia le rivendicazioni dei “diritti dell’ antichità” o il “ritorno alle fonti” come una delle tattiche impiegate da “tutti i settari” per distruggere la vera Tradizione liturgica ed introdurre così le loro nuove forme di culto, le quali, in realtà, non corrispondono per nulla alle antiche Tradizioni [7].

In conclusione cosa c’è in comune tra la recente riforma liturgica e quella di San Pio V? Sfortunatamente, abbiamo solo l’«elemento materiale ed esteriore», che consiste nel dichiarare, tanto da parte di San Pio V che di Paolo VI, l’intenzione di restaurare alcuni riti secondo le norme dei Padri. Anche se, per il Novus Ordo, i fatti smentiscono la dichiarazione verbale. E così è per l’ ermeneutica della continuità tra Concilio Vaticano II e Tradizione apostolica… (collegialità episcopale/primato petrino; libertà delle false religioni/tolleranza religiosa; una sola fonte della Rivelazione: la Scrittura/due fonti: Tradizione e Scrittura; pan-ecumenismo/una sola vera Religione…).

 

Il Sacrificio eucaristico è anzitutto un’azione di Cristo”?

Al paragrafo 11 il Proemio o prologo dell’Institutio riveduta nel 1970 afferma che il Concilio di Trento, considerando le circostanze dell’ epoca, ritenne suo dovere inculcare ancora una volta la dottrina tradizionale della Chiesa secondo la quale “il Sacrificio eucaristico è anzitutto azione di Cristo stesso e di conseguenza la sua efficacia non dipende affatto dal modo di partecipazione dei fedeli”.

Ora, una tale formulazione delle relazioni tra il Sacerdozio di Nostro Signore e quello dei fedeli è incompleta. In questo delicato problema, la questione non consiste solo – né soprattutto – nel sapere se il Sacrificio è in qualche modo intaccato dalla partecipazione dei fedeli, ma consiste soprattutto nel sapere se, quando essi partecipano al S. Sacrificio, ‘concelebrano la Messa col sacerdote’. Vale a dire, se anch’essi, come il sacerdote, sono dei rappresentanti ufficiali di Nostro Signore per l’esecuzione delle funzioni liturgiche.

Sull’argomento le modifiche introdotte nel 1970 nell’Institutio sono ancora una volta insufficienti. Infatti secondo l’Institutio la Messa è in primo luogo azione di Cristo, ma la parola in primis (soprattutto, principalmente, in primo luogo) sta a significare che, nel suo elemento essenziale, il Sacrificio è l’azione di Cristo, ma non esclude esplicitamente che sia anche l’azione dei fedeli. Nella prospettiva dell’insieme del proemio, tale azione dei fedeli non è esclusa, anzi è considerata come un elemento importante per la celebrazione della Messa. Ora, l’ Immolazione sacrificale in senso stretto è non anzitutto, ma esclusivamente un’azione di Nostro Signore, rappresentato dal celebrante, che ha ricevuto il Sacramento dell’Ordine e partecipa alla S. Messa come strumento, e non è, in alcun caso, un’azione dei fedeli. Questi ultimi, possono e devono unirvisi in spirito, offrendo Gesù come vittima al Padre tramite il sacerdote validamente ordinato e offrendo anche  se stessi in unione con essa, ma non realizzano in alcun modo l’ azione sacrificale propriamente detta[8]. Il testo in esame, non essendo chiaro a riguardo, apre la porta ad una concezione erronea, protestantica e modernistica, del Sacerdozio dei fedeli.

 

La revisione dell’«Institutio»

Presentando i cambiamenti introdotti nell’Institutio nel 1970, la rivista Notitiæ[9] scriveva: “Da quando l’ Institutio generalis Missalis Romani fu pubblicata nel 1969 […] è stata oggetto di diverse critiche, sia rubricali che dottrinali. Alcune censure [cfr. il “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, accompagnato dalla “Lettera di presentazione a Paolo VI” dei cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci] sono state espresse sulla base di un’ opinione preconcetta, che si oppone ad ogni genere di novità; per tale motivo, non è sembrato necessario esaminarle, in quanto prive di alcun fondamento. In effetti, l’ Institutio era stata sottoposta all’esame dei Padri del Consilium e degli esperti, prima e dopo la sua pubblicazione. Non si trovò alcuna ragione per modificare la disposizione degli articoli, e non vi si scoprì nessun errore dottrinale. Si tratta di un documento pastorale e rubricale che regola la celebrazione della Messa secondo la dottrina del concilio Vaticano II, dell’enciclica Mysterium fidei di Paolo VI […] e dell’istruzione Eucharisticum mysterium […]. Tuttavia, al fine di evitare difficoltà di ogni tipo, e per rendere più chiare certe espressioni, fu deciso che, in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica del nuovo Messale Romano del 1970, il testo dell’Institutio sarebbe stato qui e là completato o riscritto (vedasi la dichiarazione della Sacra Congregazione per il Culto Divino del 18 novembre 1969, in Notitiæ, n. 5, 1969, pagg. 417-418). Questo non ha comportato alcunché di interamente nuovo: cosicché lo schema della prima edizione [1969] è stato mantenuto [1970]. Gli emendamenti sono veramente pochi, talvolta minimi o concernenti unicamente lo stile”.

Questa preoccupazione di sostenere che gli emendamenti non erano destinati a correggere gli errori o a compensare le deficienze di natura dottrinale, ma solo a rendere più chiaro ciò che era già contenuto nel testo precedente lascia temere che la revisione dell’Institutio abbia rappresentato solo una semplice ritirata strategica (“un passo indietro per fare due passi avanti”). In realtà consolida gli stessi errori e conferma alcuni di essi, ora chiaramente con un linguaggio sottile e mascherato.

 

Il numero 7 dell’«Institutio» rivisto nel 1970

Il tanto discusso n° 7 nell’ Institutio riveduta è così redatto: “Nella Messa o Cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo [personam Christi gerente], per celebrare il memoriale del Signore, cioè il Sacrificio eucaristico. Per questa riunione locale della santa Chiesa vale perciò in modo eminente la promessa di Cristo: ‘Là dove sono due o tre radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro’ (Mt. XVIII, 20). Infatti nella celebrazione della Messa, nella quale si perpetua il Sacrificio della Croce, Cristo è realmente presente nell’assemblea dei fedeli riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche”.

In questo nuovo testo, il n° 7 può essere ancora sottoposto a pesanti critiche. In verità, anche se è stata abolita una certa definizione della Messa, anche se si dice che il sacerdote agisce nella persona di Cristo e si è inserito un richiamo al Sacrificio (detto, però, eucaristico, ma non propiziatorio), anche se si dichiara che Nostro Signore è sostanzialmente e permanentemente presente sotto le specie eucaristiche, sussistono pur sempre delle ambiguità e delle deviazioni non trascurabili.

Il fatto più grave consiste nell’ affermare che è il popolo che celebra il memoriale del Signore o Sacrificio eucaristico.

Permangono inoltre strane imprecisioni sui diversi tipi di “presenza” di Nostro Signore nella Messa. Si dice che la Sua presenza sotto le specie eucaristiche è “sostanziale e permanente”, e l’espressione è assolutamente esatta, ma la parola enim (poiché) stabilisce un rapporto che non è affatto chiaro e che è molto pericoloso se posto tra questa presenza sostanziale ed il principio precedentemente enunciato: “Là dove sono due o tre radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Che relazione ci sarebbe tra queste due presenze? Il carattere comunitario dell’assemblea riunita nel nome di Cristo contribuirebbe a che Egli divenga presente sotto le specie eucaristiche? Forse che il “popolo di Dio” riunito eserciti una funzione attiva per rendere effettiva la presenza sostanziale di Nostro Signore nell’ Eucarestia? Infatti nel nuovo rito il celebrante non si inginocchia dopo aver consacrato, ma solo dopo aver mostrato ai fedeli l’ostia. Calvino insegnava che è la Fede dei fedeli a rendere presente per ‘companazione’ Cristo nell’ostia, ma questa è un’eresia.

Il testo permette che si stabiliscano delle pericolose ambiguità su tale questione, in quanto poco  prima è stato affermato che il popolo di Dio celebra il Sacrificio. Quindi ci si inginocchia solo dopo che il popolo di Dio ha reso presente Gesù nell’ostia con la sua fede e Gesù non si rende presente per le parole della consacrazione pronunciate, sia pure in forma narrativa, dal sacerdote.

Non si fissano più le distinzioni necessarie tra i diversi tipi di presenza non sostanziale di Cristo, e cioè la presenza nell’assemblea riunita, nella persona del ministro e nelle parole della Scrittura. Il fatto che l’assemblea sia menzionata prima del ministro è rivelatore: potrebbe infatti suggerire che, nella celebrazione eucaristica, la presenza di Nostro Signore nel popolo è, se non superiore, almeno più importante della sua presenza nella persona del ministro.

Impiegare, infatti, nella definizione della Messa l’espressione ‘sacerdote præside personamque Christi gerente’ sembra subordinare la funzione del sacerdote come rappresentante di Cristo alla sua funzione di presidente dell’assemblea, mentre in realtà è vero il contrario.

Infine, nel contesto, il fatto che l’espressione “Cristo è realmente presente” non è riservata alla presenza che deriva dalla transustanziazione tende ad indebolire la fede nella “presenza reale” per antonomasia e ad introdurre tra i cattolici una terminologia gradita a certi protestanti, che ammettono la presenza reale per ‘companazione’ ma non per ‘transustanziazione’.

 

Conclusione

In conclusione, come quelli del 1969, i testi del 1970 della nuova Messa non possono essere, in coscienza, giudicati in continuità oggettiva con la Tradizione apostolica, perché se ne discostano in maniera impressionante.

La nuova Messa contiene (bisogna soppesare e distinguere bene il significato delle parole e perciò qui riportiamo quelle impiegate autorevolmente da monsignor De Castro Mayer/Da Silveira e dai cardinali Ottaviani/Bacci) ‘errori palesi’ contro la ‘purezza’ della Fede anche se non contro la Fede in se stessa, negazioni ‘pratiche/implicite’ di essa anche se non esplicite; essa è monca, pecca di omissioni, è insidiosa o ‘favorisce l’eresia’, è insufficiente, anche se ‘non esplicitamente eretica’; modifica il senso ‘esatto’ dell’ offertorio lasciandone uno inesatto e ridotto; cambia alcune parole ‘accidentali’ della forma della Consacrazione e non ha più una ‘forma sacramentale esplicita’ dell’ Eucarestia ‘in senso proprio o stretto’, pur conservando una forma ‘in senso largo’ che può essere esplicitata dall’intenzione del celebrante; conduce alla ‘diminuizione della Fede nella Presenza Reale’, e pur non negandola in sé, contiene oggettive mancanze di rispetto verso questa Presenza Reale di Gesù (pollici/indici non più uniti dopo la Consacrazione, non più purificazioni delle dita, non più comunione dei fedeli in ginocchio ma in piedi e peggio ancora in mano, laici che distribuiscono la comunione…).

Certamente la nuova Messa intacca ‘la’ Tradizione liturgica apostolica e si distacca ‘da’ essa. È per questo che con i cardinali Ottaviani e Bacci possiamo e dobbiamo continuare a sperare e a chiederne l’ abrogazione, ma non possiamo farlo noi, poiché non ne abbiamo il potere e l’autorità e non si può fare un “colpo di Chiesa”: il “colpo di Stato” e il tirannicidio sono contemplati a certe condizioni dalla teologia cattolica; la deposizione del Papa da parte dell’Episcopato o dei fedeli mai. Dobbiamo pregare, dunque, Dio che ci aiuti a mantenere la Fede e che illumini e fortifichi i Pastori aventi giurisdizione per restaurare il vero Culto tradizionale romano.

Basilius

(Fine)

A tutti i nostri lettori auguriamo sante le feste pasquali.

 

Alcune riflessioni su Assisi 2011

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[1] Paolo VI, Costituzione apostolica Missale Romanum, edizione tipica, pp. 8-9.

[2] P. Bugnini, De editione Missalis Romani instaurati, in ‘Notitiae’, n° 54, p. 161.

[3] La "celebrazione dell’eucaristia", nel suo significato proprio, è esclusivamente un’azione di Cristo e del sacerdote, il quale, nella Messa, Lo rappresenta. Nell’Enciclica Mediator Dei, Pio XII (20 novembre 1947) condanna la dichiarazione secondo la quale "il Sacrificio eucaristico è un’autentica concelebrazione" del sacerdote e del popolo presente (AAS, 1947, p. 553). I fedeli possono e devono unirsi al celebrante nell’offrire la Vittima che è immolata, e in questo senso la Messa è realmente una azione dell’intera Chiesa, ma l’offerta fatta dai fedeli è essenzialmente distinta da quella di Nostro Signore. Non si può dire, in alcun caso, che a causa di questa offerta i semplici fedeli diventano degli autentici "celebranti" della Messa. Per questi motivi, l’espressione "la celebrazione dell’eucaristia è un’azione di tutta la Chiesa" si rivela ambigua nel contesto di quest’articolo 5 del proemio.

[4] Articolo 6 del proemio.

[5] Enciclica Mediator Dei, AAS, 20 novembre 1947, p. 545.

[6] Enciclica Mediator Dei, AAS, 20 novembre 1947, p. 546.

[7] Dom Prosper Guéranger, Institutions Liturgiques, Parigi, Débecourt, 1840, tomo I, pp. 417-418.

 

[8] Vedi Pio XII, Mediator Dei e Mons. Antonio De Castro Mayer, Carta pastoral sobre o Santo Sacrificio da Missa, in ‘Catolicismo’, n° 227, novembre 1969.

[9] Vedi l’articolo intitolato Variationes in Institutionem generalem missalis Romani inductae, in ‘Notitiae’ n° 54.