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Categoria: Anno 2011

PUNTI FERMI - LA CHIESA E LA CRISI NEO-MODERNISTA

Se sia lecito parlare teologicamente e in senso stretto di “Chiesa conciliare” sostanzialmente diversa da quella cattolica

Premessa

Quando si parla di Vaticano II come dogmaticamente inaccettabile, non si intende racchiudere in tale constatazione di “rottura oggettiva con la Tradizione apostolica”[1] la responsabilità soggettiva di chi lo ha accolto in buona fede, pensando di obbedire all’Autorità né tanto meno si vuole disprezzare nessuno: “Solo Dio scruta il cuore e le reni”. Così come, quando si constata la nocività oggettiva del Novus Ordo Missae, non si vuole minimamente offendere chi pensa di celebrarlo – in buona fede – in obbedienza all’Autorità, per ignoranza incolpevole delle carenze dottrinali del Nuovo Rito. Queste carenze furono subito messe in luce nel “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” con la “Lettera di presentazione” dei cardinali Antonio Bacci e Alfredo Ottaviani, ove si trovano considerazioni severe sulla non ortodossia oggettiva del nuovo rito (“si allontana impressionantemente dalla dottrina cattolica sul Sacrificio della Messa qual è stata definita dal Concilio di Trento”) e si chiede al Papa di abrogarlo quale “legge nociva”.

Più recentemente monsignor Mario Oliveri, Vescovo titolare della Diocesi di Albenga, ha scritto su Studi Cattolici del giugno 2009 un articolo su “La riscoperta di Romano Amerio in cui afferma che non è solo lo spirito o l’interpretazione data da alcuni teologi super-progressisti del Concilio a contenere equivoci, ma è la lettera stessa del Concilio ad essere oggettivamente in contraddizione con i Concili dogmatici della Chiesa.

Bisogna quindi cercare di conformare il nostro intelletto alla realtà, anche se scomoda (“il vero è ciò che è, non ciò che piace” dice Aristotele), e tentare di far fronte al problema, salva restando la riverenza alla legittima Autorità e la vera carità fraterna “non ficta” tra sacerdoti, la quale non esclude uno scambio di vedute diverse fatto però in maniera corretta: In certis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (Sant’Agostino).

 

Giovanni XXIII  e la finalità del Concilio: un atteggiamento irenico verso la “modernità”

Giovanni XXIII “l’11 ottobre 1962 nell’allocuzione con cui […] apriva il Concilio […] specificò le finalità della grande Assise. […]. Il dovere della conservazione e trasmissione del sacro deposito […] e quello di tradurre il contenuto delle verità rivelate […] in un linguaggio più vicino alla mentalità corrente. Le decisioni conciliari sono tutt’altro che campate in aria […]. Ognuna, gradita o no, […] è legata strettamente […] agli scopi che papa Roncalli […] additò al Concilio. Sta dunque in tali scopi il suo centro di gravità. In un quadro storico che ribaltava l’eredità pacelliana, aprendo con somma imprudenza […] là dove la vigilanza dogmatica […] di Pio XII aveva posto degli argini a difesa, Giovanni XXIII volle dare alla storia della Chiesa un’impronta nuova […], un atteggiamento irenicamente dialogico nei confronti della cultura, della sensibilità e della modernità” (B. Gherardini, In dialogo con Karl Barth, Frigento, 2011, pp. 27-28).

È l’«aggiornamento» voluto da Gaudium et Spes, n. 23: un “mettersi al passo dei tempi”. Giovanni XXIII “in riferimento alla temperie culturale del presente, quella cioè nata dall’illuminismo in poi, indicò un processo di adeguamento, o di adattamento alla situazione culturale in atto, per lo scopo pastorale di capire e farsi capire” (Brunero Gherardini, op. cit., p. 36).

Gli strumenti culturali di cui ci si servì – scrive ancora mons. Gherardini – furono «operanti dai tetti in giù, ossia nel dominio dell’ immanenza, ed incuranti se non anche nemici delle cose “che vengono dall’alto” (Col., III, 1-2), dei doni cioè che scendono “a Patre luminum” (Gc., I, 17)» (B. Gherardini, cit., p. 36).

 

Paolo VI mette l’accento sulla “collegialità”

“Più tardi sarà proprio l’ arcivescovo di Milano, divenuto papa Paolo VI, a dare al Concilio la sua impronta e la sua finalità eminentemente ecclesiologica” (B. Gherardini, cit., p. 29, nota 6; cfr. M. Jedin, Il Concilio Vaticano II, in La Chiesa del XX secolo, vol. X/1 di Storia della Chiesa, Milano, Jaca Book, 1980, p. 111).

Mentre Giovanni XXIII si era fermato a tradurre in un linguaggio più accessibile agli “uomini dei tempi nostri” la dottrina della Chiesa, Paolo VI aggiunse una finalità ecclesiologica (collegialità episcopale contro monarchia papale), ecumenismo e dialogo col mondo contemporaneo, ossia post-moderno” (cfr. AAS, 1963, 841-859, pp. 895-927).

Paolo VI ha pertanto perfezionato, in peggio, la finalità originaria di Giovanni XXIII: il 29 settembre 1963, inaugurando la 2a sessione del Concilio, “perfezionò definitivamente le finalità che il Concilio si riprometteva: approfondimento della natura della Chiesa […], impegno per l’unità dei cristiani e dialogo col mondo contemporaneo (B. Gherardini, cit., pp. 30-31).

Questo fu il “centro di gravità” o il “punto focale” definitivo del Concilio. Tuttavia, secondo mons. Gherardini, il centro di gravità più profondo del Concilio si può “identificare nell’uomo” (B. Gherardini, cit., p. 31, nota 12).

In conclusione “coordinando Rivelazione e pensiero moderno, [il Concilio] sottopone l’immutabilità [della Rivelazione] alla mutevolezza [del pensiero moderno] in una sintesi in perenne movimento” (B. Gherardini, cit., p. 44). Il “Cristo cosmico” di Teilhard aleggia sul “Concilio cosmico” in perpetuo divenire!

 

Distinzione tra la Chiesa (soggetto) e il suo insegnamento (oggetto)

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[1] Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Id., Tradidi quod et accepi. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010; Id.,Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011; Id., Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Torino, Lindau, 2011.

L’Autore in questi libri sostiene che la “continuità” tra la Tradizione apostolica e la teologia pastorale del Concilio Vaticano II è “affermata, ma non provata”. Innanzitutto le parole non sono la realtà ed inoltre non corrispondono ad essa. Vi è quindi un divario tra il detto e il fatto. Ora la definizione di verità è “conformità del pensiero alla realtà”, mentre l’errore è definito “non conformità del pensiero e delle parole che lo esprimono ai fatti”. Quindi la teoria dell’ ermeneutica della continuità – oggettivamente – è un errore o falsità.