I PERICOLI DELLA FILOSOFIA SCOTISTA

Inquadramento storico dello scotismo

Giovanni Duns Scoto (1266-1308) più che un metafisico è un teologo. Etienne Gilson ha scritto: «Non esiste una ‘sintesi metafisica’ di Duns Scoto […]. La sola sintesi completa che Duns Scoto abbia concepita è una sintesi teologica»[1]. Anche il padre francescano Efrem Betton professore all’Università cattolica del S. Cuore di Milano, ritiene che “esistono dottrine scotiste […], ma non esiste una filosofia scotista: le sue dottrine, infatti, non avrebbero raggiunto quella maturazione e quella coerenza interiore, che sarebbero state necessarie perché le singole tesi potessero coordinarsi logicamente in un sistema di verità”[2].

 

Personalmente Scoto fu un uomo di Dio, un vero mistico, un gran mariologo, specialmente per quanto riguarda la ‘Immacolata Concezione’ di Maria, la sua ‘Corredenzione’ secondaria e subordinata a quella di Cristo e la di lei ‘Mediazione universale’ di ogni grazia[3]. Tuttavia, dal punto di vista strettamente filosofico e più specificatamente metafisico, la dottrina scotista è “alternativa a quella di S. Tommaso, […] più oscura, […] meno ordinata e sistematica”[4]. Le sue opere più famose sono i tre Commentari al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Il primo fu esposto ad Oxford nel 1299 e viene chiamato anche Opus oxoniense o Lectura prima super quatuor libros Sententiarum o anche Ordinatio oxoniensis. Nel 1300 a Cambridge ultimò il secondo, chiamato Reportatio cambrigensis. Nel 1301 a Parigi ultimò il terzo commento chiamato Reportata parisiensia[5]. Di questi tre commenti il più importante è il primo o Opus oxoniense[6].

Nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannò 219 proposizioni che, secondo lui, avrebbero riassunto la dottrina di S. Tommaso d’Aquino, confusa dal Tempier con il razionalismo di Sigieri di Brabante[7] (+ 1284). La censura metteva in netta contrapposizione filosofia e teologia, ragione e fede[8] e condannava come cattive la filosofia e la ragione naturale per affermare la validità della sola Rivelazione soprannaturale e della teologia. Una sorta di fideismo o “tradizionalismo francese” ante litteram. Assieme a Sigieri veniva condannato il razionalismo di Avicenna[9] (+1037) e Averroè[10] (+1198) e si confondeva l’aristotelismo interpretato in maniera razionalista da questi due pensatori arabi con la metafisica aristotelica e soprattutto tomistica, la quale, oltre che del ‘concetto di partecipazione’ tipicamente platonico[11] completato dal concetto di ‘essere per essenza’, si valeva della ‘metafisica dell’essenze’ aristotelica e la trascendeva con la ‘metafisica dell’ essere’ quale ‘atto ultimo, perfezione di ogni essenza[12]. Il pensiero di S. Tommaso fu frainteso da Stefano Tempier ed accomunato, ingiustamente, a quello di Averroè ed Avicenna.

Siccome Scoto aveva iniziato a studiare alla Sorbona di Parigi verso il 1280, quando era uscita la condanna del Tempier (1277), ne fu influenzato enormemente e si formò in uno spirito eccessivamente anti-filosofico, come se la ragione e la filosofia fossero cattive in sé e non solo imperfette e perfezionabili dalla teologia e dalla Rivelazione. Perciò il sistema scotista fu un’antifilosofia, una ‘sola theologia’, una reductio philosophiae in theologiam e un anti-tomismo radicale, avendo frainteso la vera dottrina tomistica. Il modo d’incedere di Scoto è “pesantemente raziocinativo, […] un’ eccessiva utilizzazione della logica aristotelica rende assai faticosa la lettura dei testi del Dottor Sottile. […] Una subtilitas quasi cavillosa lo porta a vagliare tutte le posizioni e tutte le autorità con piglio severo, […] ad introdurre nuovi concetti”[13]. Quindi, mentre la metafisica tomistica è opera della ragione naturale, come deve essere la filosofia, ma conforme alla Fede, poiché non esiste una “doppia verità”: una di ragione e una di Fede, contrarie ma entrambe vere, la dottrina di Scoto, invece, è assorbita dalla Rivelazione quanto alla sostanza (anche se quanto al modo è rigorosamente logica) facendo una certa commistione e confusione tra ragione e Fede, filosofia e teologia, le quali invece sono distinte ma non contraddittorie. La ragione per il Dottor Sottile, dopo il peccato originale, è talmente guasta che può filosofare correttamente solo se sottomessa alla Rivelazione. Invece la dottrina cattolica insegna che il peccato adamitico ha ferito l’uomo, ma non ha distrutto le sue facoltà naturali. Quindi la ragione può riuscire da sé a conoscere la realtà e a cogliere la verità naturalmente accessibile, senza dover necessariamente essere aiutata dalla Rivelazione, la quale gioca un ruolo ausiliario estrinseco alla filosofia, come il paracarro di una via aiuta l’ automobile a non uscire fuori strada, o come la soluzione riportata alla fine del problema di matematica aiuta lo studente a vedere se nello svolgere il suo compito ha errato o ha colto la verità. Se il professore suggerisse ogni passo del problema allo studente, questi non imparerebbe mai la scienza matematica (al massimo la “crederebbe”) e la sua intelligenza si atrofizzerebbe, e se la guida dell’auto fosse lasciata dall’ autista al paracarro, l’automobile non si sposterebbe di un passo.

Certamente le circostanze storiche della condanna di S. Tommaso da parte del Tempier hanno influito sullo scotismo, portandolo ad una eccessiva svalutazione della ragione e della filosofia, ad un’erronea comprensione del tomismo, alla confusione di quest’ultimo col razionalismo di Sigieri, Avicenna ed Averroè e quindi ad una falsa lettura dell’aristotelismo concepito in totale contraddizione metafisica colla Fede e del quale salva solo la logica formale.

Per S. Tommaso[14] la metafisica e la ragione umana non possono conoscere tutta la realtà e verità, poiché esiste una realtà soprannaturale e una verità che supera la capacità della ragione naturale. Quindi la filosofia da sola non basta a conoscere tutto, però può conoscere realmente le sostanze della realtà naturale. La teologia è scienza di Dio: Dio rivelante e rivelato è il suo oggetto. La filosofia ha per oggetto l’esse ut actus omnium formarum, ossia l’ente, che è un’essenza finita habens esse per participationem[15] (che ha l’essere per partecipazione), e come termine arriva all’Essere stesso sussistente, risalendo dagli effetti alla Causa. Ma il Dio della filosofia è solo l’Autore della natura e non è il Dio rivelante e rivelato o Deus sub ratione Deitatis, ossia conosciuto nei suoi Misteri o nella sua Natura intima (Trinità…). Per Scoto, invece, la filosofia non può nulla e tutto si risolve in teologia: «Scoto pensa che il filosofo, […] giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili»[16]. Per questo scrive il padre francescano Efrem Bettoni: «Duns Scoto diffida di una filosofia pura o separata [dalla teologia] ed è sempre attento a denunciarne non solo i limiti, ma anche gli inevitabili errori»[17]. Secondo padre Bettoni, Scoto ritiene che «ogni filosofia, la quale si fonda sulle risorse della ragione umana, [ha] dei limiti insuperabili […], nella concreta situazione in cui è venuta a trovarsi in conseguenza del peccato originale»[18]. Etienne Gilson dal canto suo ammette che «Scoto prepara l’affacciarsi delle filosofie moderne e la sua dottrina è una spiegazione della loro esistenza»[19].

 

L’oggetto della metafisica[20]

Qual è l’oggetto proprio dell’ intelletto umano? Per S. Tommaso[21] è l’ente e quindi “l’essenza intelligibile della cosa sensibile”, poiché l’uomo è composto di anima e corpo e nihil est in intellectu nisi prius non fuerit in sensu; niente si trova nell’ intelletto se prima non sia passato attraverso i sensi. Ossia l’intelletto agente astrae una specie intelligibile dall’immagine sensibile impressa nei sensi esterni da un oggetto reale ed extramentale. Scoto[22], invece, rigetta la dottrina tomistica sulla conoscenza umana e insegna che l’oggetto proprio e primario dell’ intelletto umano è l’essere in genere[23].

Inoltre, secondo Scoto, la teoria della conoscenza umana va spiegata volontaristicamente, ossia a partire da una disposizione della Volontà di Dio, il quale vuole che l’uomo conosca in tale maniera e non in un’altra[24], mentre per S. Tommaso[25] l’uomo conosce mediante l’ astrazione di idee razionali da immagini sensibili perché è naturalmente composto di anima e corpo[26].

La dottrina del Dottor Sottile[27]può portare all’errore (che Scoto, però, non ha esplicitato) secondo cui anche Dio e l’Angelo, siccome sono enti, possono essere conosciuti naturalmente per sé e direttamente dall’intelletto umano, senza un sillogismo o dimostrazione che risale dall’effetto alla Causa per quanto riguarda Dio o con un argomento di pura convenienza per quanto riguarda gli Angeli (conviene che tra Dio ‘Atto puro’ e l’uomo, composto di materia e forma o ‘atto misto’, vi sia una forma senza materia, ma non pura da ogni potenza, bensì composta di atto e potenza, e questa è l’Angelo)[28]. Padre Efrem Bettoni riconosce che, se l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’essere in genere, «l’intelligibilità coincide con la realtà e nessun essere, sia pure l’Essere immateriale per eccellenza, l’Essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo»[29].

 

La via all’agnosticismo dei modernisti: un Dio inaccessibile alla ragione umana

L’Angelo per Scoto è composto di una materia spiritualizzata o rarefatta[30]. È per questo motivo che padre Efrem Bettoni scrive: «Questa è la ragione per cui molti storici del pensiero del medioevo si sentirono autorizzati a vedere in Duns Scoto il primo responsabile della decadenza della scolastica»[31]. Mentre S. Tommaso nella sua metafisica si basa sul concetto forte e intensivo di essere (esse ut actus) come atto ultimo di ogni essenza e perfezione di ogni perfezione, Scoto si basa sul concetto debole di essere (esse commune seu in genere; l’essere comune o generale)[32]. Da ciò segue la debolezza della “teologia naturale” o teodicea scotista, che non riesce, come invece riesce S. Tommaso (S. Th., I, q. 2, a. 3), a provare positivamente l’esistenza e la conoscenza di qualche attributo di Dio mediante l’analogia dell’essere[33]; anzi Scoto mette eccessivamente in rilievo la Trascendenza di Dio così da renderlo assolutamente inaccessibile alla ragione umana. Ora il Concilio Vaticano I (sess. III, can. 2) ha definito di Fede divina e cattolica che “la ragione umana può dimostrare con certezza l’esistenza di Dio mediante un ragionamento, che risale dalle creature o effetti al Creatore o Causa”. In breve la Chiesa ha canonizzato le “cinque vie” di S. Tommaso che provano l’esistenza di Dio, come è anche rivelato nella Sapienza, cap. XIII, e in San Paolo, Rom., cap. I, ed ha anatemizzato la tesi contraria, come ricorda San Poi X nella Pascendi contro l’agnosticismo dei modernisti.

Inoltre «Scoto ritiene che l’uomo non può vedere naturalmente l’essenza di Dio a causa di un decreto della Volontà divina. Infatti per Scoto Dio avrebbe potuto volere che l’intelligenza umana potesse vederlo naturalmente e che il Lumen gloriae e la Visio beatifica fossero una proprietà della nostra natura, ma di fatto Dio non l’ha voluto. Così la distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale sarebbe contingente e si fonderebbe sopra un libero decreto di Dio (cfr. D. Scotus, In Ium Sent., dist. 3, q. 3, nn. 24-25)»[34]. Anche il francescano padre Efrem Bettoni ammette: «La dimostrazione [scotista su Dio] farà capo, invece che all’esistenza, alla possibilità dell’ Essere in-causabile. […] Scoto lascia S. Tommaso per proseguire in compagnia di S. Anselmo: se un Essere in-causabile è possibile […], dobbiamo concludere che esiste di fatto»[35].

Infine per la concezione volontaristica di Scoto «la volontà dell’uomo non è necessitata da nessun oggetto, neppure dalla Beatitudine, che è un bene senza difetti»[36]. Sempre volontaristicamente Scoto scrive che “è bene ciò che Dio vuole e comanda”[37] (e non lo vuole e comanda perché è bene).

 

La via all’errore sulla grazia non gratuita ma dovuta

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[1] E. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Parigi, Vrin, 1952, p. 339; tr. it., Giovanni.

[2] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol., col. 525.

[3] Cfr. R. Zavalloni – E. Mariani, La dottrina mariologica di G. Duns Scoto, Roma, 1987. Cfr. Mons. Antonio De Castro Mayer, Lettera pastorale “La Mediazione universale di Maria Santissima” (agosto 1978), tr. it., Piacenza, “Cristianità”, n. 68, dic. 1980, p. 3-11.

Così pure Francisco Suarez (+ 1617) fu un uomo di Dio e un pio Gesuita, dotto nella filosofia politica e nel Diritto internazionale e naturale, ma debole nella metafisica (v. sì sì no no, 15 febbraio 2011, pp. 1-5).

[4] B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998, II vol., p. 664.

[5] Edizione di Vivès, Parigi, 1891-1895, 26 volumi in folio. Cfr. Opera omnia, 12 voll., Lione, Wadding editore, 1639, rist. Hildesheim, Olms, 1968-1969; Opera omnia a cura della Commissione Scotista, diretta da C. Balic-L. Modric, Città del Vaticano, Typis Polyglottis Vaticanis, 1950 ss.

[6] Edizione di Vivès, 14 volumi in folio, Parigi, 1891-1895; ora vi è un fac-simile pubblicato in 26 volumi dall’ editore Gregg, Farnborough, 1969.

[7] Sigieri, filosofo fiammingo, iniziatore dell’averroismo latino, che riteneva vero interprete dell’aristotelismo Averroè e non S. Tommaso d’Aquino (+ 1274). La sua dottrina contrastava esplicitamente con la Rivelazione cristiana, poiché insegnava l’eternità della materia, del divenire e negava la Provvidenza di Dio. Inoltre, sulle orme di Averroè, l’ intelletto, per Sigieri, è una sostanza unica per tutta la specie umana, sostanza spirituale e separata dall’uomo singolo e quindi il singolo individuo umano è mortale (Dizionario dei filosofi, del “Centro Studi di Gallarate”, Firenze, Sansoni, 1976, voce “Sigieri di Brabante” a cura di C. A. Graiff, pp. 1088-1090). Cfr. anche P. Mandonnet, Sigier de Brabant et l’averroisme latin au XIII siècle, Lovanio, 1908; B. Nardi, La posizione di Alberto Magno di fronte all’averroismo, in “Rivista di Storia di Filosofia”, 1947, pp. 197-220; Id, L’anima umana secondo Sigieri, in “Giornale critico della Filosofia italiana”, 1950, pp. 317-325; F. Van Steenberghen, Sigier de Brabant d’après ses oeuvres inédites, Lovanio, 1935.

[8] S. Tommaso d’Aquino, C. Gent., I, 3 e 7; S. Th., I-II, q. 2, a. 4; De Ver., q. 14, a. 10. Contro cui Duns Scotus, Opus ox., Prol., q. 3, a. 8, n. 25.

[9] Avicenna come metafisico si basa su Aristotele, Plotino e Al Farabi. Egli alla luce di Aristotele distingue realmente l’essenza dall’esistenza nelle creature. S. Tommaso si è valso anche di questa teoria di Avicenna, ma l’ha corretta e trascesa alla luce del suo concetto forte o intensivo di esse ut actus ultimus omnium formarum. Infatti Avicenna (In IV Metaph., lect. II, n. 558) reputava che l’essere fosse un accidente, che si aggiunge all’essenza o sostanza e ne è realmente distinto. Invece l’Aquinate concepisce l’essere come l’attualità di ogni sostanza o essenza; perciò non è compreso in nessuna delle dieci ‘categorie’ (la sostanza e i 9 accidenti), ma le trascende tutte. Quindi vi è in Avicenna una corrente metafisicamente aristotelica, che si ferma alla sostanza e non giunge tomisticamente all’essere come atto ultimo. Tuttavia c’è in lui anche una corrente plotiniana o neo-platonica, che influisce sulla sua cosmologia o studio del mondo finito e naturale, il quale è concepito come un’emanazione necessaria di Dio e non una sua libera creazione; ossia la cosmologia di Avicenna è un monismo tendenzialmente panteista, che non si accorda col Corano, il quale è utilizzato da Avicenna per raddrizzare la sua cosmologia, ma senza successo. Avicenna risente dell’influsso manicheo e gnostico, poiché concepisce la materia come malvagia in sé, puro non-essere; solo dopo la morte, l’anima liberata dal corpo gusterà la gioia della contemplazione intuitiva dell’essenze intelligibili. Questa è una felicità puramente e aridamente intellettualmente intuitiva, sebbene Avicenna abbia cercato di integrarla col ‘sufismo’ o mistica esoterica musulmana. Sia in lui che in Averroè si scorge un notevole influsso dello gnosticismo (Dizionario dei filosofi, del “Centro Studi di Gallarate”, Firenze, Sansoni, 1976, voce “Avicenna” a cura di A. M. Goichon, pp. 85-89).

[10] Averroè  distingue le “cose soprannaturali” e divine  dalle “cose naturali” ed umane. La conoscenza umana ha come oggetto le “cose naturali”, ma non le coglie in maniera adeguata ed oggettiva. Essa non giunge neppure a conoscere l’essenza delle cose e si ferma alle apparenze o “fenomeni”. La conoscenza soprannaturale non dipende dalle cose extramentali, in essa vi è identità di soggetto ed oggetto. Le “cose soprannaturali” sono la “realtà noumenica” del mondo intero, oggetto di conoscenza divina, intuitiva o soprannaturale, la quale è identica all’oggetto conosciuto. Averroè giunge ad una concezione panteistica simile a quella che dopo di lui insegneranno Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Il mondo umano è la “realtà fenomenica”, oggetto della conoscenza umana, raziocinativa. Come si vede Averroè anticipa anche Emmanuel Kant. La religione per Averroè è quella coranica. L’insegnamento del Corano deve essere inculcato pubblicamente per l’istruzione dell’umanità intera. I filosofi possono liberamente coltivare la filosofia, ma i loro scritti non debbono essere divulgati al pubblico, poiché rischierebbero di confondere la fede coranica della massa; ciò vale anche per i teologi. Detto ciò, si vede chiaramente che il preteso accordo tra Fede e ragione, Religione e filosofia di Averroè non è reale, ma è essoterico o pubblico. La sua dottrina è una gnosi di tipo ‘sufistico’ musulmano. Egli pubblicamente accetta i princìpi della religione coranica sull’immortalità dell’anima, sull’aldilà con i premi e i castighi. Tuttavia le prescrizioni religiose sono considerate da lui, essotericamente, utili e prudenziali per il miglioramento dell’umanità (Dizionario dei filosofi, del “Centro Studi di Gallarate”, Firenze, Sansoni, 1976, voce “Averroè” a cura di J. L. Teicher, pp. 77-83).

[11] Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, Torino, SEI, 1960, passim.

[12] Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, SEI, Torino, 1950, passim;

Id, L’enigma Rosmini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, p. 9 ss., 235-376 (tomismo-rosminianismo);

pp. 384-393 (scotismo-suarezianismo-rosminianismo); pp. 183-243, 399-435 (eterodossia di Rosmini).

[13] B. Mondin, cit., p. 669.

[14] S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2um.

[15] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 37, q. 1, a. 1, sol.; S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; I, q. 5, a. 1, ad 1; I, q. 29, a. 2; C. Gent., II, 15.

[16] B. Mondin, cit., p. 672.

[17] E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano, Vita e Pensiero, 1966, p. 35.

[18] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol., col. 526.

[19] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947.

[20] S. Tommaso d’Aquino, De Pot., q. 7, a. 2, ad 9; C. G., I, 26.

[21] S. Th., I, q. 84, a. 7.

[22] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, Prol. q. I, art. 1., ibidem, I, d. 3, p. 1, n. 113; In Ium Sent., dist. 3, q. 5.

[23] D. Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, n. 126, 137 e 186.

[24] D. Scotus, In Ium Sent., d. 3, q. 3; Op. ox, I, d. 1, n. 80-146, n. 91-93.

[25] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 80, 82-83; De Malo, qq. 3 e 6; De Ver., q. 22.

[26] S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 85, a. 1; De Anima, 4; Quodl., VIII, q. 2, a. 2. Al contrario, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 6, n. 2, 5, 8, 9-14.

[27] D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 3, a. 1, n. 2, 4 e 7.

[28] S. Tommaso d’Aquino, De spirit. creat., S. Th., I, qq. 54-64, 98-103; Comp. Theologiae, cap. 73-78.

[29] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 526.

[30] D. Scotus, De rerum principio, qq. 7-8.

[31] E. Bettoni, cit., p. 44.

[32] D. Scotus, Opus oxoniense, II, d. 3, q. 1, n. 8-9.

[33] Cfr. T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Bologna, ESD, 1991; rist., Verona, Fede & Cultura, 2009; S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 3, a. 1, ad 3; I. Sent., d. 19, q. 5, a. 2, ad 1; ivi, d. 8, a. 1, ad 4.

[34] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 89.

[35] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 529. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 2, q. 2, n. 11 e 16.

[36] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932, p. 41. Il libro è molto profondo speculativamente, ma eccessivamente rude quanto al modo di confutare la dottrina scotistica. Tuttavia merita di essere studiato per la comprensione dei pericoli che lo Scotismo porta nel suo seno stesso. Paolo De Töth nacque ad Udine nel 1881 e morì a Maiano presso Fiesole nel 1965. Amico e collaboratore di p. Guido Mattiussi, profondo conoscitore di S. Tommaso e acerrimo nemico del modernismo, fu un grande studioso di mistica; sua è la traduzione, con le note e il commento, delle Opere spirituali di S. Giovanni della Croce (Acquapendente, 1927). Fu il Direttore della rivista anti-modernista Fede e ragione di Fiesole (1919-1929), i cui collaboratori più famosi furono Guido Mattiussi, Umberto Benigni e Tito Casini.

[37] D. Scotus, Reportatio parisiensia, IV, dist. 28 (“Voluntas divina est causa boni et ideo eo ipso quod Deus vult aliquod, ipsum est bonum”); cfr. Opus oxoniense, 3, dist., 37.