L’ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ

OVVERO IL CONCILIO “ALLA LUCE DELLA TRADIZIONE”

DA PAOLO VI A BENEDETTO XVI

“In molti punti, gli eretici sono con me, in qualche altro no; ma a causa di questi pochi punti in cui si separano da me, non serve loro a nulla di essere con me in tutto il resto” (S. Augustinus, In Psal. 54, n. 19; PL 36, 641).

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Per quanto riguarda l’ ermeneutica della continuità tra Vaticano II e Tradizione apostolica, essa non è un’idea ‘restauratrice’ di Benedetto XVI (‘Discorso alla Curia romana’, 22 dicembre 2005) come alcuni vorrebbero far credere, ma già Paolo VI, quarantuno anni prima, ne aveva parlato nella ‘Dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964’, ripresa il 16 novembre 1964: «dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’ autorità del supremo magistero ordinario, il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti» (cfr. ‘Udienza generale del mercoledì’, 12 gennaio 1966). Inoltre, nella ‘Udienza al Sacro Collegio Cardinalizio’ del 23 giugno 1972, Paolo VI denunciò «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la Tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa pre-conciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».

 

Anche per Benedetto XVI il Concilio va, sì, interpretato senza discontinuità, ma accogliendone lealmente tutti gli elementi di riforma e di rinnovamento. Poiché egli insiste (Discorso alla Curia romana’, del 22 dicembre 2005) sul fatto che la «discontinuità» fra la Dignitatis humanae e il Magistero precedente è solo «apparente»; perché afferma che non c’è discontinuità fra il precedente Magistero e la Dei Verbum (Esortazione apostolica Verbum Domini); poiché insegna che della modernità vanno rifiutati gli errori, ma accolte le istanze, e che il Concilio ha giustamente preso in considerazione queste istanze; poiché soprattutto ricorda che, per esercitare un ministero nella Chiesa «in modo legittimo» e in piena comunione con il Romano Pontefice, occorre «l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi» (‘Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall'Arcivescovo Lefebvre’, del 10 marzo 2009), continuare ad attendersi dal Papa attuale «un approfondito esame del Concilio Vaticano II» in senso restauratore della Tradizione significa non prendere sul serio né Benedetto XVI né se stessi né i fedeli.

Benedetto XVI non ha nessuna intenzione di rivedere il Vaticano II e lo ha detto e scritto esplicitamente. L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa non presuppone affatto per Benedetto XVI l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitino di una interpretazione “alla luce della Tradizione”.

Chi mostra di non capirlo opera una distinzione tra il Benedetto XVI della “storia” (reale) e quello della “fede” (trasfigurato), simile a quella che i modernisti applicano a Gesù.

Il 16 dicembre 2010 in un Convegno sul Vaticano II tenutosi in Roma presso il Collegio “Maria Bambina” Mons. Brunero Gherardini ha detto che «chi ha dimestichezza con tutti i sedici documenti conciliari, si rende ben conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti:1°) quello generico, del Concilio in quanto Concilio ecumenico; 2°) quello specifico del taglio pastorale; 3°) quello dell’appello ad altri Concili; 4°) quello delle innovazioni. Le innovazioni costituiscono il quarto livello. Se si guarda allo spirito che guidò il Concilio, si potrebbe affermare ch’esso fu tutto un quarto livello, animato com’era da uno spirito radicalmente innovatore, anche là dove tentava il suo radicamento nella Tradizione. Alcune innovazioni sono però specifiche: la collegialità dei vescovi, l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura, la limitazione dell’ispirazione ed inerranza biblica, gli strani rapporti con il mondo ebraico ed islamico, le forzature della cosiddetta libertà religiosa. È fin troppo chiaro che se c’è un livello al quale la qualità dogmatica non è assolutamente riconoscibile, è proprio quello delle novità conciliari».

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