LA CONTRO-TEOLOGIA

di J. B. Metz

Se le fantasie teologiche del gesuita Teilhard sono state il “principio e fondamento” del “neo-modernismo”, i cui rappresentanti sono i domenicani di Le Saulchoir (Chenu/Congar) e i gesuiti di Lione-Fourvière (de Lubac/Daniélou/Balthasar), se il gesuita Karl Rahner è stato il “ponte” tra il “neo-modernismo” e il “post-modernismo radicale”, i cui esponenti sono Küng e Schillebeeckx, questi ultimi hanno aperto la porta alla “teologia politica” (Metz) e alla “teologia della liberazione” (Gutiérrez/Boff) entrambe filo-marxiste e che conducono infine al “nichilismo teologico” o contro-teologia.

 

Questo è l’esito finale della nova theologia, condannata nel 1950 da Pio XII, ma riabilitata nel 1960 da Giovanni XXIII nei suoi rappresentanti, che non hanno fatto ammenda dei loro errori anzi li hanno riconfermati, combattendo esplicitamente il magistero di papa Pacelli, e sono stati creati addirittura cardinali da Paolo VI (Daniélou) e Giovanni Paolo II (Congar, de Lubac, Balthasar), dopo aver fatto il Concilio Vaticano II ed aver sparso in ambiente cattolico il veleno della nouvelle théologie, grazie all’ escamotage del Concilio “pastorale” e non dogmatico (cfr. B. Gherardini, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare. Frigento, Casa Editrice Mariana, 2009). Non si riesce, perciò, a vedere quale “continuità” vi sia tra la dottrina cattolica tradizionale sino alla Humani generis e quella della nouvelle théologie e del Vaticano II, che ne sono la contraddizione per diametrum.

La “teologia della speranza

In Germania, negli anni Sessanta, nasceva la “teologia della speranza”, sorta dal desiderio di “dialogare” con la cultura e la mentalità del tempo contemporaneo, che diventava sempre più secolarizzato, agnostico e tendenzialmente ateo. In Europa il marxismo, dialettico più che storico, in quegli anni imperava incontrastato e perciò la “teologia della speranza” volle “dialogare” col neo-marxismo dialettico.

Oltre a questa istanza filo-marxista, la “teologia della speranza” è caratterizzata anche dal “profondo” (o, meglio, superficiale) ed esagerato ottimismo, che si respirava in Europa nel Sessanta dopo la ricostruzione post-bellica e il boom economico. Il super-ottimismo era unito ad una valenza escatologica terrena e orizzontale di sapore millenaristico, che faceva guardare al futuro umano con grande fiducia, molto, forse troppo, umana.

Dalla “teologia della speranza”, nascerà, in Europa, come vedremo, la “teologia politica” e da questa “la teologia della liberazione”, specialmente in sud-America e poi la “teologia nera” e infine quella del “silenzio” e della “morte di Dio”. Oramai l’uomo era sbarcato sulla luna (1968) e l’europeo si faceva un’idea rosea dell’avvenire (come già nei primi del Novecento, quando l’ottimismo era stato immediatamente smentito dalla prova dei fatti: prima e seconda guerra mondiale).

La filosofia “neo-tomista” (non solo quella originaria e genuina di Garrigou-Lagrange e Cornelio Fabro, qualificata come “paleo-tomismo”, ma anche quella ammodernata storicistica o trascendentale di Chenu-Congar/Rahner-Schillebeeckx[1]) cominciò ad essere ritenuta del tutto sorpassata e inattuale da J.B. Metz. “Sic transit gloria mundi”: il destino dei rivoluzionari è quello di essere divorati dai loro figli spirituali, che li trovano quasi sempre troppo “conservatori”. In cambio, però, per “dialogare” con il mondo “moderno” ci si appropriava della filosofia dialettica neo-marxista della Scuola di Francoforte, specialmente di Adorno e Benjamin (cfr. sì sì no no, agosto 2009), che aveva fatto scendere il cielo in terra. Anch’essa parlava di avvenire, di futuro, di paradiso ma non più nell’aldilà: non era più l’escatologia dei Novissimi (giudizio, inferno, purgatorio, paradiso) cantata dal Dies irae del Beato Tommaso da Celano, la quale era ancora più sorpassata del neo-tomismo originario o del paleo-tomismo. L’uomo “adulto” degli anni Sessanta, non poteva credere più a queste “leggende” medievali: era andato sulla luna… e non vi aveva incontrato Dio... Quindi il “cielo” doveva essere il regno dell’uomo e non più di Dio. Occorreva rifarsi, perciò, alla evoluzione creatrice teilhardiana (cfr. sì sì no no, 30 novembre 2009) e leggerla alla luce delle categorie del marxismo dialettico e utopistico della Scuola di Francoforte (Adorno/Marcuse/Benjamin e soprattutto Ernest Bloch) e dello Strutturalismo francese (Levy-Strauss/Lacan/Althusser).

E. Bloch e la “filosofia della speranza” mondana

Ernest Bloch (1880-1977), pur essendo marxista, ha modificato il materialismo storico di Marx (primato dell’economia) presentando l’uomo come alienato non economicamente, ma ontologicamente, in quanto incompiuto come il mondo di cui fa parte e perciò teso verso il “non-ancora” ossia verso ciò che gli manca per essere compiuto e perfetto (cfr. E. Bloch, Il principio speranza, 1954-59). Questa tensione verso il “non-ancora” è la speranza mondana o utopia terrena che rimpiazza, in Bloch, l’escatologia cristiana tradizionale essenzialmente trascendente e ultra-mondana.

Per Bloch il neomodernismo, in quanto religione immanente, non è più l’oppio dei popoli come la religione tradizionale trascendente, ma ha aperto le porte al mondo e alle realtà terrestri, onde il marxismo può dialogare con questo “meta-cristianesimo” teilhardiano e immanentista, il quale offre all’uomo moderno una valida ragione di speranza in un mondo migliore e nel futuro terreno dell’uomo nuovo; contestando al tempo stesso le sovrastrutture, che impediscono all’uomo di progredire verso l’avvenire.

L’essenza della religione cristiana, per Bloch, non è l’adorazione dell’Ente trascendente ed eterno, ma la proiezione dell’uomo verso il futuro e perciò la speranza e l’ escatologia immanentistica ed utopistica hanno reso possibile l’incontro tra cristianesimo modernizzato e marxismo dialettico-utopistico in una sorta di messianismo carnale del Regno di “dio” in questo mondo, soprattutto per i poveri.

Come si vede, non è tanto il neo-marxismo ad essere cambiato (esso ha subìto soltanto degli adattamenti accidentali alle nuove situazioni, ma resta sostanzialmente materialismo dialettico), quanto il neo-cristianesimo, il quale da religione del Trascendente è divenuto una prassi dell’immanente. Per Bloch i comunisti, se vogliono vincere la partita, debbono opporre dialetticamente la religione “cattiva” o trascendente, che è quella tradizionale preconciliare, a quella “buona” o immanente, che è quella modernista postconciliare, affinché ne esca come sintesi una sorta di cristianesimo a-teo o marxistizzato, che di cristiano conserva solo il nome e le apparenze, mentre ne ha perso la sostanza, erosa modernisticamente dal di dentro. Il cristianesimo progressivo è chiamato, da Bloch, a sostituire il “futuro intra-mondano” al divino, l’evoluzione all’essere e a Dio: in breve l’aldiquà all’aldilà[2]. Bloch – è stato detto – ha gettato un ponte fra cristianesimo e comunismo, ma è stato un ponte a senso unico, destinato ad essere attraversato quasi sempre da cristiani che son diventati marxisti ed atei, poiché è più facile scendere e demolire che salire ed edificare. Tra i “nuovi teologi” che hanno ritenuto utile il ricorso alla “filosofia della speranza” di E. Bloch vi è, al primo posto, J. B. Metz[3].

La “teologia politica” di Johannes Baptista Metz

J. B. Metz nacque a Velluk (Auerbach) in Germania occidentale nel 1928, si laureò in filosofia a Innsbruck nel 1952 con una tesi su Heidegger, fu ordinato sacerdote a Bamberg nel 1954, si addottorò in teologia nel 1961 sotto la direzione di Karl Rahner con una tesi sul tomismo trascendentale, nella quale propugnava l’idea che la struttura essenziale del pensiero di S. Tommaso fosse l’antropocentrismo immanentistico (!) ed ottenne l’ abilitazione all’insegnamento nel 1962 a Monaco. Nel 1963 iniziò l’ insegnamento presso l’università di Münster. Le sue opere più famose sono: Antropocentrismo cristiano del 1962, tr. it. Torino, Borla, 1969; Sulla teologia del mondo del 1968, tr. it., Brescia, Queriniana, 1969; Il futuro della speranza, 1969; Cristiani ed ebrei dopo Auschwitz, in Al di là della religione borghese, tr. it., Brescia, Queriniana, 1981.

Il pensiero di Metz ha come oggetto le realtà terrestri e la dimensione politica della fede, intesa come dialogo con la cultura neo-marxista. Altri suoi autori preferiti sono Kant, Marx, Adorno e Walter Benjamin. La sua è la teologia del mondo, della speranza intra-mondana e politica che apre le porte al “silenzio” e alla “morte di Dio”.

La teologia del mondo

La teologia del mondo” consiste nel prendere coscienza che il mondo è diventato “ominizzato”, secolarizzato, terrestre, non più aperto al trascendente. La fede è messa in questione, le “tracce di Dio” si sono smarrite nel mondo moderno, vi si scorgono solo quelle umane. Tuttavia non bisogna disperare davanti al fatto che la modernità vada verso la scristianizzazione, poiché il mondo “ominizzato” non è sorto contro, ma bensì grazie al cristianesimo ammodernato. Il compito della teologia odierna pertanto è quello di interpretare la mondanità (o secolarizzazione) dell’epoca attuale come non anticristiana, ma sorta grazie al neo-cristianesimo, e quindi da non vedere come una minaccia per la fede.

Questo principio è stato fatto proprio e riproposto in qualità di teologo da Joseph Ratzinger, il quale, assieme a Marcello Pera (cfr. sì sì no no, 15 marzo 2009), vede origini cristiane nella modernità (rivoluzione francese, liberalismo, liberismo, kantismo…). È la stessa teoria del “Perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce, o del “cristiano anonimo o implicito” di Rahner e Schillebeeckx, spinta all’ estremo da Pera che afferma: “Dobbiamo dirci cristiani”, ma di un “cristianesimo” nuovo, latitudinarista, a-dogmatico, immanente e secolarizzato: “cristiani non per fede, ma per cultura”. Tutto diventa allora cristiano, poiché si è cambiata l’essenza del cristianesimo: il vecchio cristianesimo, il cristianesimo tradizionale non è più (come voleva Feuerbach), lo si è trasformato modernisticamente in una filosofia del divenire, che proietta l’uomo verso un futuro migliore e radioso, qui, su questa terra.

È questa l’apoteosi dell’ antropocentrismo. Dio non è più il Creatore e Signore trascendente il mondo, no! Non è il “concorrente”, ma il “garante” del mondo con il quale – panteisticamente – fa tutt’uno. È l’apparente vittoria, temporanea e caduca, di Satana, che promette di dare tutto questo mondo a chi lo adorerà. È il culto dell’uomo, il quale ha preso il posto di Dio, che è la caratteristica essenziale del regno dell’Anticristo finale, come scrisse S. Pio X nella sua prima enciclica E supremi apostolatus del 1903.

Paradossalmente (ma non troppo) per il Nostro è la fede modernista a fondare la “umanizzazione” totale del mondo a discapito della Trascendenza divina, la quale è rimpiazzata dall’evoluzione o operazione creatrice dell’uomo di origine teilhardiana.

La teologia della speranza intramondana

La umanizzazione o secolarizzazione del mondo moderno, per Metz, non è l’anticamera dell’ateismo o della scristianizzazione. Quindi non si deve abbandonare il fenomeno della secolarizzazione all’ anticristianesimo; questo fenomeno deve essere incluso nella teologia della speranza perché connaturale al “cristianesimo nuovo” o meta-cristianesimo (come lo chiamava Teilhard) ove Dio, religione e cristianesimo sono immanentizzati e umanizzati.

Questo dunque l’itinerario di Metz: 1°) “teologia del mondo”, il quale mondo fa una sola cosa con Dio e il Cristo cosmico; 2°) “teologia della speranza”, che non vede nella umanizzazione o mondanizzazione o scristianizzazione un fenomeno negativo, bensì positivo e del quale si può e si deve ben sperare e rallegrarsi; 3°) “teologia politica”, poiché non bisogna ridurre la religione ad un fatto esclusivamente privato, personalista ed esistenziale, ma sociale. Sembrerebbe questa la riaffermazione della “regalità sociale di Cristo”, ma Metz non ha le categorie filosofico-teologiche della dottrina cattolica tradizionale (cfr. Pio XI, Quas primas, 1926) e per lui “sociale” è sinonimo di “socialista” o neo-marxista; 4°) “teologia del silenzio di Dio”.

La “teologia politica”

La “teologia politica” fu prospettata da Giovanni Battista Metz al “Congresso Internazionale di Teologia” di Toronto (in Canada) nell’ agosto del 1967. In italiano il testo di Metz apparve la prima volta nel volume Teologia del rinnovamento (Assisi, Cittadella, 1969, pp. 267-283), che va letto alla luce di un saggio successivo del Metz, intitolato Fede nella storia e nella società (tr. it., Brescia, Queriniana, 1978).

Metz si mostra sempre più critico verso la filosofia esistenzialista e trascendentale di Sartre e Rahner, in quanto “intimistiche” o personaliste e che hanno prestato scarsa attenzione alla sinistra hegeliana, con la quale, invece, secondo lui, occorre fare i conti per riformulare il messaggio cristiano in maniera escatologicamente immanentistica, speranzosa (o utopistica) e politica[4]. Tuttavia Metz riconosce che il marxismo classico o materialismo storico (primato dell’economia e lotta di classe con la dittatura del proletariato) si è rivelato incapace di evitare il totalitarismo, di costruire il paradiso in terra e di creare un “uomo nuovo”. Ma a lui, sacerdote cattolico, che si pretende anche “teologo” cattolico, sembra sfuggire la causa profonda di questo inevitabile fallimento del materialismo storico: la terra con il bolscevismo è diventata una sorta di “inferno” o “gulag” perché l’uomo è sempre uomo, ferito dal “peccato originale”, con le “tre concupiscenze” e i “sette vizi capitali”; egli è rinnovato parzialmente e gradualmente solo dalla “grazia santificante” in via e lo sarà totalmente e definitivamente dalla “visione beatifica” in patria. Dimentica di questa verità fondamentale, la teologia politica di Metz non mira a instaurare omnia in Christo, ma a “progettare e creare un avvenire nuovo [che poi è vecchio quanto il diavolo, nda], al servizio del futuro della società”[5] fondato sulla religione del mondo o immanentistica. Così il “meta-cristianesimo”, unito alla dialettica della sinistra hegeliana e del neo-marxismo di Francoforte, rimpiazza il materialismo storico, la lotta di classe e la rivoluzione del proletariato (cfr. J. B. Metz, Cristiani e marxisti: dialogo per il futuro, a cura di L. Fabbri, Roma, Ave, 1967).

La teologia del silenzio di Dio

Nel 1980 Metz scrisse un capitolo (“Cristiani ed ebrei dopo Auschwitz”) sul problema del silenzio di Dio, in un libro, presto tradotto in italiano (“Al di là della religione borghese, Brescia, Queriniana, 1981). Successivamente partecipò al “Simposio Internazionale” intitolato “Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l’oggi”, tenutosi a Roma dal 22 al 25 settembre 1997, sotto la direzione del card. Edward Cassidy, presidente della “Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo”. Le relazioni del Simposio sono state raccolte nel libro omonimo pubblicato dalle Edizioni Paoline, Milano, 1998.

La relazione svolta da Metz, che dal 1993 è professore emerito nell’ Università di Vienna e dal 1994 dirige la sezione dogmatica della rivista “Concilium”, si intitola “Tra la memoria e l’oblio. La shoah nell’ epoca dell’amnesia culturale” (pp. 52-61 del libro succitato). In essa egli rincarando la dose, si domanda: «Con una simile catastrofe [la shoah, ndr] alle proprie spalle, esiste un Dio in nome del quale si possa pregare?» (p. 52) e risponde: negli anni Ottanta, dopo aver preso coscienza di Auschwitz (forse un po’ troppo tardi – osserviamo – visto che Metz è nato nel 1928, ed anche un po’ troppo “all’ultima moda”), «ho cercato di fare teologia cristiana proponendomi di non dare un significato cristiano a questa catastrofe, e nemmeno un’accettazione cristiana, ma praticando piuttosto una teologia dopo Auschwitz, intesa anzitutto come critica della teologia» (p. 53), ossia dello studio di Dio. Infatti, secondo Metz, «il trionfo dell’ amnesia trova i suoi fondamenti […] nella teologia cristiana» (p. 55), vale a dire che, se ci si scorda della shoah, è colpa dello… studio su Cristo. E conclude, in maniera molto originale, controcorrente e politicamente scorretta, con la domanda: «Dov’era Dio ad Auschwitz?» (p. 59). Il catechismo gli aveva insegnato che Dio è “in cielo, in terra e in ogni luogo” perché Egli è onnipresente, ma evidentemente la teologia “politica” (o “diplomatica”) ha provocato anche in Metz una paurosa “amnesia”. In realtà Metz sta a dimostrare come dal neomodernismo si arriva al “silenzio di Dio”, poi alla negazione della Sua esistenza e della Sua provvidenza ed infine alla “teologia della morte di Dio” o nichilismo teologico, del quale parleremo.

Altre teologie sostanzialmente affini

Sono sostanzialmente affini alla “teologia” di Metz, nonostante abbiano scopi e indirizzi di ricerca accidentalmente diversi, altre “teologie” variamente denominate.

La teologia radicale afferma la fine della metafisica classica e quindi la necessità di una “demitizzazione” della teologia classica; nega la distinzione tra ordine naturale e soprannaturale, e infine rivaluta la modernità come immanentismo antropocentrico e autonomia del mondo e dell’uomo dal Dio oggettivo e realmente esistente della metafisica e teologia classica.

La parola “Dio” non ha nessun significato oggettivo, così come Dio stesso non è un Ente reale e oggettivamente esistente. Il concetto e la parola “Dio” sono morti e scomparsi dal modo di pensare e parlare della modernità (Cartesio-Hegel) e post-modernità (Nietzsche-Freud), appunto perché sono privi di senso e di spessore ontologico o reale. Occorre, perciò, abbandonare la teologia tradizionale come “discorso su Dio” e tentare una “teologia secolare”, fondata sull’esperienza empirica della figura del Cristo. Non si può neppure proclamare la “morte di Dio”, non perché Egli non possa morire, ma perché non possiamo negare o costatare il decesso di ciò che non conosciamo. Dio potrebbe anche essere morto, ma non lo sappiamo con certezza.

Se, dopo la (mitica o simbolica) Sua risurrezione, Gesù è un esempio contagioso capace di fondare una “teologia della speranza” per l’uomo moderno, non si deve né gli si può per questo riconoscere di essere Dio.

La teologia della secolarizzazione, come quella radicale, pur non negando l’esistenza di Dio, ne afferma la inconoscibilità e la incapacità da parte dell’uomo di parlare di Dio (apofatismo).

Solo la centralità del “Cristo della storia” e l’impegno politico nel mondo possono riuscire là dove la teologia tradizionale ha fallito. Il “Cristo della storia” è un “esempio contagioso” che non mortifica la dignità dell’uomo e del teologo, che si sentivano schiacciati, invece, dal Dio personale e trascendente della metafisica e teologia scolastica. Cristo, perfettamente e pienamente uomo, come rappresentante di Dio presso l’umanità, resta l’unico elemento valido e centrale dell’Humanum.

La teologia della secolarizzazione pone l’accento sull’impegno politico terreno o prassi più che sulla speranza, come invece fa la “teologia radicale”.

La teologia della “morte di Dio” o della “religiosità atea” afferma la scomparsa di Dio dal nostro tempo (modernità e post-modernità).

Dato il fallimento della metafisica e della teologia scolastica nel parlare di Dio, occorre prendere atto di questo scacco e riproporre all’uomo di oggi la figura di Cristo come liberatore dell’umanità.

La teologia della “morte di Dio” ribadisce, come le prime due, che ad essere morte nel mondo odierno antropocentrico, immanentistico e secolarizzato, sono la nozione e la parola “Dio” più che Dio stesso, il quale non è conoscibile e del quale quindi non si può parlare né come vivo né come morto. Questa “teologia”, a differenza delle altre due, accentua l’impegno di presentare un cristianesimo ateo”, in quanto Cristo è un esempio, una forza, ma non è Dio.

Da questo “meta-cristianesimo”, di derivazione teilhardiana, nasce il bisogno di un’etica caritatevole o meglio filantropica e di una vaga “religiosità atea”. Infatti poiché Dio è inconoscibile e inesprimibile (apofatismo o nichilismo teologico), la religiosità non può fondarsi su Dio, ma deve essere “a-tea” cioè senza Dio. Sembra una barzelletta, ed invece è la conclusione logica ed ultima dell’agnosticismo modernista che afferma l’inconoscibilità razionale dell’ esistenza di Dio (v. Pascendi).

Il “cristianesimo ateo”, di sapore teilhardiano, afferma che Cristo non è Dio, ma è l’evoluzione creatrice che dal nulla avanza verso l’uomo e da questo procede verso il punto omega o “Cristo cosmico”. Come si vede, tutto (“teologie” conciliari e post-conciliari) parte da Teilhard e a lui ritorna.

Tutti questi sistemi, che si vogliono “teologici”, infatti, pur divergendo quanto al modo o alle finalità prossime, sono sostanzialmente simili avendo in comune lo stesso principio: l’evoluzione creatrice di Teilhard de Chardin, e lo stesso fine ultimo: il “meta-cristianesimo” teilhardiano, cioè il cambiamento della fede, del dogma, delle formule dogmatiche e della religione tradizionale, la quale ha come oggetto il Dio personale, trascendente, realmente ed oggettivamente esistente. La teologia conciliare e post-conciliare è antro-pocentrica (sforzandosi hegelianamente di far coincidere Dio e l’uomo), mentre quella tradizionale è teo-centrica e tiene ben distinti il Dio creatore e l’uomo creatura, come la logica più elementare vuole, “per la contraddizion che nol consente[6].

Il suicidio della teologia

I teologi postconciliari, come si vede non hanno costruito nessun nuovo sistema teologico, ma hanno lavorato seguendo man mano le varie prospettive filosofiche venute alla ribalta a partire dagli anni Trenta sino ad oggi, anche se totalmente incompatibili con la Fede cattolica: personalismo, esistenzialismo, marxismo utopistico di Bloch, nuova scienza ermeneutica di Gadamer (tanto cara anche a Joseph Ratzinger), Scuola di Francoforte, intrisa di freudismo trotzkista, e Strutturalismo francese, infarcito di istintivismo e irrazionalismo. In breve i teologi post-conciliari, post-moderni e post-modernisti sposano la Fede cattolica non più con il kantismo, come il modernismo condannato da San Pio X, ma addirittura con il nichilismo filosofico in un connubio ancor più innaturale. È l’esito ultimo e definitivo di quel processo iniziato nel 1893 con l’immanentismo apologetico di Blondel, condannato da San Pio X nel 1907 sotto il nome di modernismo (Pascendi); riapparso negli anni Quaranta e ricondannato da Pio XII come “nuova teologia” o neo-modernismo nel 1950 (Humani generis). Oggi possiamo parlare di post-modernismo, dacché la “nuova teologia” attuale fa sua non più la modernità (da Cartesio a Hegel), ma la post-modernità (Nietzsche, Marx, Freud), la quale è nichilismo metafisico, logico e morale, volendo distruggere l’Essere stesso per essenza (“Dio è morto”) e l’ essere per partecipazione nella sua capacità intellettiva umana rendendolo un bruto (“l’uomo animale-razionale è morto”) ed infine l’etica e i valori morali facendo dell’uomo uno schiavo delle sue passioni e dei suoi istinti più perversi (“l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio, è morto”). Per rimediare al disastro che abbiamo sotto gli occhi, sia in campo naturale (individuo, famiglia, scuola, Stato) sia nell’ordine soprannaturale (anime in disgrazia di Dio, teologie “a-teologiche” o “atee”, Chiesa invasa dal “fumo di satana” e in “auto-demolizione”, come riconobbe lo stesso Paolo VI), occorre ritornare alle fonti genuine della nostra civiltà cristiana: metafisica classica greca, etica romana, patristica, scolastica e diritto canonico. Il “Concilio interpretato alla luce della Tradizione” è una quadratura del cerchio perché la Traditio divino-apostolica condanna il Concilio e a fortori il post-concilio. Sino a che si vuol restare nell’ equivoco dell’ «ermeneutica della continuità» non si uscirà da questa tempesta che si è abbattuta sul mondo cattolico.

Eleutherius



[1] Anche se questi due ultimi hanno cercato di flirtare brevemente con la teologia della speranza che però li ha snobbati. Cfr. K. Rahner, Nuovi Saggi, III, Roma, 1969, VI parte “L’Escatologia”, pp. 619-692. E. Schillebeeckx, Dio futuro dell’uomo, Roma, 1971.

[2] Bloch non ha inventato nulla di nuovo, ha ripreso e adattato Ludwig Feuerbach (1804-1872), il quale nella sua opera principale “L’essenza del cristianesimo” (1841) insegnava che nella vera religione ammodernata non è più Dio che si rivela, ma è l’uomo che rivela se stesso, onde la teologia diventa antropologia. Egli riprende tutti i dogmi cristiani e ne dà un’interpretazione immanentistica e antropologica. Infatti l’essenza della religione è costituita dall’unità dell’essere divino con l’essere umano ma, mentre per Hegel è l’Idea–Dio che produce l’uomo (“panteismo ascendente”), per Feuerbach l’Idea Dio è prodotta dall’uomo (“panteismo ascendente”).

Feuerbach non intendeva sopprimere la religione, ma, come Bloch, trasformare la Trascendenza in immanenza. “L’essenza del cristianesimo” termina con queste parole: «la divinità degli uomini è lo scopo finale della vera religione». Da Feuerbach discende direttamente l’ateismo vitalistico e nichilistico di Nietzsche, quello utopistico di Ernest Bloch e indirettamente l’ateismo politico-materialista di Marx e quello psicanalitico pansessualista di Freud. Per il ricorso a Feuerbach da parte della teologia cattolica, vedi la critica di padre Cornelio Fabro ne L’avventura della teologia progressista, Rusconi ed., 1974, pp. 129 ss.

[3] B. Mondin, I teologi della speranza, Torino, 2a ed. 1974.

Id., Teologie della prassi, Brescia, Queriniana, 1973.

Id., I teologi della liberazione, Roma, 1977.

M.D. Chenu, Teologia della Materia, Torino, 1966.

Id., Per una teologia del lavoro, Torino, 1964.

J.B. Metz, Per una teologia del mondo, Brescia, 1971.

J. Moltamann, teologia della speranza, Brescia, 1966.

[4] Cfr. A Fierro, Introduzione alle teologie politiche, Assisi, 1977.

G. Frosini, La fede e le opere. Le teologie della prassi, Cinisello Balsamo, 1992.

P. Grassi, La svolta politica della teologia, Roma, 1976.

M. Xhaufflaire, Introduzione alla “teologia politica” di J. B. Metz, Brescia, 1974.

[5] F. Ardusso-G. Ferretti-A.M. Pastore-U. Perone, La teologia contemporanea, Torino, Marietti, 1980, p. 537.

[6] B. Mondin, I teologi della morte di Dio, Torino, Borla,1966.

Id., La secolarizzazione: morte di Dio?, Torino, Borla, 1968.